L’intervista. Luigi Mascheroni: “Intellettuali prigionieri del politicamente corretto”

Luigi Mascheroni redattore de Il Giornale, settore cultura
Luigi Mascheroni redattore de Il Giornale, settore cultura

Sin dalla sua nascita nel dicembre del 1901, ad opera di Alberto Bergamini l’allora direttore del Giornale d’Italia, che intese raccontare la prima della tragedia dannunziana Francesca da Rimini, interpretata dalla sublime Eleonora Duse già favorita del Vate, la terza pagina ha rappresentato, all’interno delle testate nazionali, il luogo preposto ad accogliere l’arti e la cultura, costituendosi come una delle parti più raffinate d’un quotidiano. Ma il tempo scorre inesorabile, il mondo cambia e con esso cambiano i costumi e gli interessi. Così nella nostra società consumistica e iper tecnologica, dominata dall’informatica e da mezzi di comunicazione dalla portata planetaria, che promettono di raccontare tutto e subito – a patto d’aver qualcosa da dire -, lo spazio riservato alla cultura sulle pagine dei giornali sembra ridursi colla velocità delle foreste pluviali insidiate dai bulldozer. Per capirne di più, ci siamo rivolti a Luigi Mascheroni giornalista culturale de Il Giornale.

La carta stampata in questi ultimi anni, anche per causa dei nuovi sistemi d’informazione, sta conoscendo una crisi senza precedenti: ritiene che in futuro vi sarà ancora spazio per i quotidiani tradizionali, o verranno soppiantati dalle loro versioni elettroniche?

“Credo che i giornali di carta continueranno a esistere in forma minimale. Poche testate, molto d’élite. Sopravviveranno solo le migliori, quelle che possono (e vogliono) ancora investire nelle redazioni e sui giornalisti. La selezione si fa sulla qualità. Se vado in edicola e spendo dei soldi, devi darmi qualcosa di assolutamente diverso e unico. Altrimenti mi informo gratis: in tv o sul web o con la radio. Tutti i giornali che tagliano per risparmiare pensando che il proprio pubblico di lettori continuerà a sopravvivere, si impoveriscono e basta. E così sono destinati giustamente a morire. E’ una cosa semplicissima, stupida. Tutti i giornalisti lo capiscono. Ma purtroppo le decisioni le prendono gli amministratori delegati e i capi del personale. Che invece notoriamente a queste cose non ci arrivano. Sono quelli che segano il ramo su cui sono seduti. Tranne che a cadere sono i giornalisti. Loro di solito hanno paracaduti economici ottimi”.

Nel corso del tempo lo spazio destinato alla cultura nelle testate italiane si è andato restringendo in modo preoccupante: pensa che si potrà assistere a un’inversione di tendenza, oppure andrà sempre peggio?

“Le poche testate che resisteranno, resisteranno proprio anche grazie agli spazi e l’attenzione che daranno alla Cultura. Un settore che infatti web e tv tendono a trascurare, o a semplificare molto. E’ proprio parlando di certi libri e di certi film, di certe tendenze artistiche, di fenomeni sociali e culturali, e facendo tutto ciò in un certo modo – qualitativamente alto – che puoi offrire un prodotto diverso al lettore. E convincerlo che vale la pena spendere uno o due euro in edicola per avere in mano qualcosa che non troverebbe altrove. Per tutte le altre testate che scelgono di suicidarsi, invece, sarà sempre peggio: meno spazi, meno pagine, meno attenzione, meno risorse… Tagli la qualità, e così tagli i tuoi lettori”.

Vi sono delle differenze tra il modo di fare giornalismo culturale in Italia rispetto all’estero?

“In linea di massima, a parte le solite doverose eccezioni, quello del giornalismo culturale è uno dei pochi settori in cui – nel passato di sicuro, oggi magari un po’ meno – l’Italia non deve certo vergognarsi rispetto ai Paesi stranieri. Anzi. Ma non solo perché la Terza pagina è nata ed è cresciuta in Italia. Ma perché da noi Cultura ha sempre significato Letteratura prima di tutto, e poi Filosofia, Storia, Arte, Poesia… Con tutti i limiti di tale snobismo. In altri Paesi invece Cultura è stato ed è qualcosa di più vicino a “Costume e società”. Qualcosa di più pop ma anche più cheap”.

Oggi sulla rete si possono trovare recensioni d’ogni tipo, ma spesso si tratta di lavori condotti con dilettantismo e carenti della necessaria oggettività: quali sono i segreti per una recensione fatta a regola d’arte?

“Dovrei rispondere uno solo: la malafede. Più il recensore diffida dell’autore di cui scrive, meglio è. Ma è una battuta. In realtà, la recensione – mettiamo che si tratti di un libro – deve: spiegare a tutti, non solo all’autore del libro e ai giornalisti culturali, di che libro si tratta: di che genere, chi è l’autore, come si colloca nel contesto letterario generale, come si colloca quel libro nel percorso letterario dell’autore…; presentare, sintetizzando, l’opera: di cosa parla? Spesso leggi una recensione di 50 righe e non si capisce se è un romanzo storico o una raccolta di racconti cyber punk; evidenziare episodi, temi, personaggi che caratterizzano il libro e lo rendono degno – rispetto a tutti gli altri titoli in libreria – di essere recensito; segnalare eventuali reazioni: in altri Paesi, nel pubblico, tra i critici…; analizzare brevemente gli aspetti tecnici: stile, scrittura, ‘costruzione’ narrativa…; e infine una valutazione, motivata, degli aspetti negativi e positivi del libro. Tutto in 50-60 righe. E non è facile”.

Sul sito del Giornale.off ha un video blog in cui presenta una serie, invero ottimamente realizzata, di video-recensioni: come le è venuta quest’idea che si segnala per originalità e fruibilità?

“Come molti giornalisti della carta stampata sono stato a lungo diffidente nei confronti del web. Poi col tempo ho capito che i due strumenti non sono né rivali né incompatibili, anzi… E così ho provato a pensare un modo per unire le potenzialità di Internet e la mia esperienza nel mondo dei libri sui giornali di carta… E ho pensato di raccontare le nuove uscite librarie in brevi video, una cosa semplicissima. Però, raccontare un libro stando fermo dietro una scrivania non mi convinceva, troppo statico… E ho inventato un format: brevi video-recensioni di tre minuti circa per raccontare i libri più curiosi in uscita, ambientandole in luoghi legati al contenuto del libro, per rendere la cosa più curiosa e magari invogliare potenziali lettori. Ho girato in musei d’arte contemporanea (saggi di storia dell’arte e sul mercato dell’arte), musei archeologici (un famoso saggio sul mito di Joseph Campbell), bar celebri come il ‘Jamaica’…, il caveau di un banca (una commedia contro le banche di Friedrich Dürrenmatt), ristoranti, negozi di giocattoli (un saggio di Manguel sul gioco), cimiteri (il romanzo “L’ ultimo cranio del marchese di Sade” di Jacques Chessex), chiese, sexy shop, famosi atelier, enoteche (la raccolta di recensioni enologiche di Jay McInerney), mercatini, biblioteche, librerie, bookstore, grandi magazzini, stazioni dei treni, università (la stupenda commedia sulla scuola di Alan Bennet ‘Gli studenti di storia’’), tribunali (saggi su Kafka)… tutte location milanesi. Non posso spendere in trasferte…”.

Il suo libro preferito?

“Forse Moby Dick. Forse i racconti di Čechov”.

Il film che più ha amato?

“Angeli con la pistola di Frank Capra, ma per motivi affettivi”.

Se disponesse d’una macchina del tempo quale personaggio della letteratura vorrebbe intervistare?

“Se conoscessi il tedesco, o con un buon interprete, Kafka”.

Qual è a suo parere il livello della narrativa contemporanea italiana?

“Noioso”.

L’arte per l’arte: aveva ragione Wilde o c’è dell’altro?

“Prima viene sempre l’arte. Poi la vita”.

In letteratura come nel cinema, v’è qualcosa di peggiore della banalità?

“Il buonismo”.

Il giornalismo e le sue nuove generazioni: dove possono nascere oggi i nuovi Veneziani e Buttafuoco?

“Di per sé ovunque. Ma – chissà perché – più facilmente nei vecchi giornali di carta, se sopravvivono, piuttosto che sul web o in tv. Però, tutto è possibile..”.

Che tipo di influenza esercita sul giornalismo culturale, e non, il politicamente corretto?

“Purtroppo una pesante, mefitica influenza. Il miglior giornalismo è il giornalismo scorretto”.

In un’epoca di grandi cambiamenti come la nostra qual è il compito dell’intellettuale?

“Rimettersi a studiare prima di parlare per niente”.

Il luogocomunismo della cultura: lei nel suo Manuale della cultura italiana, (Excelsior 1881, 2010), ha trattato con arguta ironia il tema della cultura come “luogo comune dei luoghi comuni”. E così nel suo nuovo Consigli impertinenti per il vero intellettuale da salotto (Book Time, 2014). Le piacerebbe parlarcene?

“Ormai l’intellettuale, salvo rari casi, procede per luoghi comuni. Il guaio è che tutti vogliamo essere intellettuali. Così parliamo per frasi fatte, citiamo libri che non abbiamo letto, film che non abbiamo visto, andiamo alle mostre ma non consociamo la storia dell’arte, e vogliamo pure scrivere una recensione… Scriviamo sui giornali ma abbiamo smesso di leggere… Si salva solo il già sentito dire, lo scontato, il politicamente corretto. L’importante, per tutti, è andare in tv. Ma per fare bella figura, occorre un buon manuale o un dizionario delle cose da dire. Ecco. Io ho scritto dei prontuari irriverenti per il buon Maître à penser”.

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Max Gobbo

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