Un saggio prezioso e controcorrente, che Matteo Renzi ha comprato (l’avrà letto?) pur contraddicendone le tesi con l’azione politica del governo e con le svendite dei gioielli industriali di Stato
E’ stato inserito nell’elenco dei libri che Matteo Renzi si è portato in valigia per l’estate. Ma se anche il premier l’avesse davvero letto, difficilmente avrebbe capito “Lo Stato innovatore”, il libro di Mariana Mazzucato edito da Laterza. E se poi, per sbaglio, l’avesse anche capito, continuerebbe ad ignorare le indicazioni della docente romana trasferita ad insegnare in un’università inglese.
Perché “Lo Stato innovatore” spiazza i troppi luoghi comuni sulle capacità dei privati di fare impresa innovativa. E, dunque, non può essere gradito a chi, come Renzi, sta tagliando risorse proprio laddove dovrebbe incrementarle. Mazzucato non si limita ad enunciare principi, ma elenca i casi concreti che dimostrano come – da internet alla ricerca farmaceutica, all’energia pulita – sia stato proprio l’intervento della mano pubblica a determinare l’avvio di una vera e propria industria nei rispettivi settori.
I privati, è la tesi di Mazzucato ma è anche il dato di realtà, evitano accuratamente di spingersi, con propri investimenti, nelle praterie delle attività sconosciute. Perché i rischi, ovviamente, sono tanti e le possibilità di insuccesso pure. Inoltre i costi per dar il via a nuovi settori sono decisamente elevati. Meglio lasciar fare allo Stato, dunque. Che può finanziare la ricerca di base e può pure investire sulle iniziative private che richiedono finanziamenti da non restituire nel breve periodo.
Le iniziative private di venture capital arrivano dopo, molto dopo. Quando il settore è decollato ed i rischi si sono ridotti. E, troppo spesso, i capitali vogliono essere remunerati in tempi brevissimi, con il rischio di provocare la morte di molte start up che, con un prestito “paziente”, avrebbero potuto sopravvivere e svilupparsi.
In ogni caso i privati stanno dimostrando di non possedere quello spirito animale che dovrebbe portare ad innovare realmente, ad individuare nuovi settori ed a percorrerli con adeguati investimenti, con le necessarie risorse. Il capitalismo internazionale – e quello italiano si contraddistingue per essere molto peggio della media – preferisce invece attendere che la mano pubblica crei il nuovo settore, per poi intervenire quando i giochi sono fatti e sicuri. Ma a quel punto gli imprenditori si caratterizzano per l’elevato livello di piagnisteo. Si pretendono, e si ottengono, sgravi fiscali, contributi, aiuti, sostegni. Nell’ambito di un processo che porta, ogni volta, a privatizzare i profitti ed a socializzare le perdite.
Ma, in questo modo, si drenano altre risorse pubbliche e si impedisce allo Stato di investire per la vera innovazione, per favorire la nascita di nuovi settori. Meglio l’uovo oggi che la gallina domani: per il capitalismo vigliacco dell’Italia questo è il motto fondamentale. Così, non a caso, l’Italia esce da tutti i settori innovativi mentre altri Paesi scelgono la strada opposta. Paesi grandi e piccoli. A Singapore è la mano pubblica che finanza la ricerca scientifica di base. Che viene offerta gratuitamente alle industrie che decidono di utilizzarla aprendo stabilimenti sul posto.
L’Italia di Renzi, invece, ha scelto la strada dei tagli. Meno Stato per favorire lo sviluppo delle imprese private. Quelle imprese private che tagliano gli investimenti in ricerca e sviluppo (e il poco che investono è destinato solo allo sviluppo, ignorando la ricerca), che tagliano il personale più qualificato e con maggiore esperienza perché costa di più rispetto ad un giovane precario senza specializzazione. I risultati si vedono. E non sono proprio brillanti. Consumi a picco, paura alle stelle, nessuna vera innovazione, qualche start up che sopravvive senza raggiungere le dimensioni per diventare competitiva a livello globale, per rappresentare qualcosa nel mondo che crede nell’innovazione.