Francisco se n’è andato, proprio alla viglia dei Mondiali nel suo Brasile. Se n’è andato con il corpo devastato da una vita di eccessi, soprattutto alcol, ed è perciò ancor più bello ricordarlo nelle immagini di quarant’anni fa, in un televisore in bianco e nero, mentre corre sulla fascia sinistra dei campi di Germania, giovanissimo, dribblando avversari come birilli con i lunghi capelli biondi al vento.
Francisco Marinho Chagas, chiamato da tutti Francisco Marinho per riconoscerlo dal quasi omonimo difensore centrale Mario, è morto la settimana scorsa in un ospedale di João Pessoa, nel Nordest del Brasile. Aveva 62 anni. L’ha stroncato un’emorragia allo stomaco, conseguenza di un quadro fisico gravemente debilitato che già quattro anni fa l’aveva portato a essere ricoverato d’urgenza sull’orlo della morte. Stava partecipando a una riunione di collezionisti di figurine dei Campionati del Mondo, quando all’improvviso si è sentito male, ha vomitato sangue ed è stato portato in terapia intensiva. I medici hanno provato di tutto, ma l’ex terzino sinistro della Seleção verde-oro non ce l’ha fatta.
Ai più giovani il nome di Francisco Marinho non dirà molto, anche se è stato titolare della nazionale brasiliana. La sua è stata una carriera breve, che si è bruciata in un attimo come le sue leggendarie cavalcate sulla fascia sinistra: nella Seleção ha disputato 27 partite, compreso il Mondiale del 1974 in Germania, dove il Brasile campione del mondo diretto da Zagallo non fa una gran bella figura e ottiene un misero quarto posto finale. Malgrado tutto ciò, Francisco Marinho viene eletto dai giornalisti il miglior terzino sinistro del torneo. Ma nel 1977, a soli 25 anni, esce per sempre dal giro della nazionale.
Questioni tattiche: benché dotato di corsa, tecnica individuale e un gran tiro, Francisco – che i giornalisti chiamano Bruxa, cioè la Strega per i lunghi capelli biondi – è di fatto incapace di difendere. Alla finale per il terzo posto l’attaccante polacco Lato trova davanti a sé intere praterie, perché il suo avversario diretto è molto più vicino al portiere della Polonia Tomaszewski che non al proprio estremo difensore, Emerson Leão. E ci sono anche ragioni disciplinari: Marinho è considerato un mezzo hippie, beve, fuma, va in discoteca dove fa strage di cuori femminili. E non ama la disciplina di squadra: non a caso proprio Leão, il “duro” della compagine, negli spogliatoi lo appende alla parete considerandolo responsabile della sconfitta nella finalina.
A livello di club Francisco Marinho dà il meglio di sé nel Botafogo prima e nel Fluminense poi; ma nel 1979, a soli 27 anni, segue Pelè nella redditizia ma effimera avventura newyorchese del Cosmos, dove incontrerà Chinaglia, Carlos Alberto e Beckenbauer. Campioni, ma ormai a fine carriera. Il biondo ritorna in patria nel 1981, spende ancora un paio di stagioni discrete nel San Paolo ma poi imbocca il viale del tramonto in club minori: Bangu, Fortaleza, America di Natal. Nel periodo d’oro, oltre a giocare a calcio e conquistare donne bellissime, realizza due film in Sudamerica, vende centomila copie di un suo disco, conosce attori, capi di Stato e sportivi ed è testimonial pubblicitario in numerosi spot. Un sogno, insomma, per un ragazzino nato povero a Natal, nell’estrema punta del Nordest brasiliano.
Ma la vita vera, al di là del calcio, non gli riserva troppe gioie. I soldi si riducono poco a poco, finiscono anche i lustrini, gli applausi e le richieste di autografi. Francisco Marinho, stessi capelli biondi ma il fisico ormai appesantito, sbarca il lunario sulle spiagge bianchissime di Natal, noleggiando auto 4×4 ai turisti. Beve, passa da un bar all’altro. Lo ricoverano una prima volta con il fegato in pezzi, l’epatite C e l’irrinunciabile necessità di disintossicarsi. Per l’occasione di mobilitano anche gli ex compagni della Seleção, organizzano una partita di beneficenza, raccolgono soldi. Lui racconta ai giornali il proprio calvario, ma si dice pronto a ricominciare: «Voglio scrivere un libro e fare un film sulla mia vita». La Bruxa sembra riprendersi, ma è solo un’illusione. Di lì a poco si riattacca alla bottiglia, riprecipita nei suoi fantasmi personali, come già era successo a un altro grande – anzi, un grandissimo – del Botafogo e della nazionale verde-oro: Garrincha.
Lo scorso anno finisce di nuovo in ospedale e giura che smetterà di bere: «Voglio vedere il Campionato del Mondo qui in Brasile», promette ai medici. Una promessa da marinaio, naturalmente. Ma il destino non gli dà una terza possibilità. Pochi mesi fa la sua città, Natal, gli aveva dedicato una statua di sette metri, opera di un artista locale, e l’aveva omaggiato con una canzone scritta su di lui per il carnevale.