Seicento milioni di dollari ancor prima dello sbarco nelle colossali multisale di Tokyo e Hong Kong: il secondo capitolo de Lo Hobbit si confermerà – com’era prevedibile – uno dei film più remunerativi dell’anno, e della storia, con buona pace dei più rigorosi tolkieniani. Un caleidoscopio di computer grafica, occhiali 3D e merchandising che paga, e bene, i calibrati investimenti di Warner Bros e Metro Goldwin Mayer, salite sul carro del vincitore dopo il fragore planetario della trilogia de Il Signore degli Anelli.
C’è chi premia Peter Jackson e crew, chi storce il naso, chi non va a guardalo per protesta. L’operazione de Il Signore degli Anelli era riuscita per un giusto connubio di fedeltà a Tolkien e ritmi puramente cinematografici: la trilogia fu, allora, la vera e propria aprifila di quella nuova stagione del fantasy degli anni Zero tutta epica, green screen e mostri digitali in motion capture.
Eppure, al di là degli effetti speciali della Weta Digital, rimaneva una certa allure da grande classico, da vecchio cinema. Ne la Desolazione di Smaug, quest’aspetto risulta impoverito, se non del tutto annullato: non parliamo solo del 3D e dell’iperrealismo dei 48 frames al secondo che, a detta di molti, danno ancora più corpo a personaggi e scenografie ma che, a conti fatti, nell’elevazione a potenza della profondità di campo e della pulizia esasperata dell’immagine digitale, sembrano paradossalmente appiattire sull’high definition da documentario della National Geographic la bellezza pittorica della fotografia che – saremo romantici dinosauri del cinema, chi lo sa – sentiamo ancora come colonna vertebrale della sospensione dell’incredulità; parliamo anche e soprattutto di scelte estetiche che sembrano votate al profitto più che alla cura dei dettagli: dal Signore degli Anelli a Lo Hobbit, è palese come la computer grafica abbia prepotentemente avuto la meglio su gran parte dei set costruiti dal vivo e sulle coreografie di battaglia. Era davvero il caso di passare dagli Orchi ideati e modellati sulle fattezze di attori veri dai truccatori della Weta Workshop, a quelli interamente elaborati al computer? Di eliminare intere maestranze di scultori e costruttori per ripiegare su mondi quasi del tutto virtuali? Le lezioni di scherma ed equitazione per attori e stuntmen sono state sostituite da combattimenti ipertrofici e acrobatici che ricordano più l’estetica dei videogiochi che non la cappa e spada: persino un cavallo bianco lanciato al galoppo non è reale, ma diventa un’inspiegabile e infelice creatura digitale.
Da questo dedalo di pixel ed effetti visivi, s’impone vincitore assoluto il carismatico e monumentale Smaug che, col suo corpo serpentino capace di invadere con grazia e imperiosità lo schermo, entra a pieno titolo tra i draghi più spaventosi e riusciti della storia del Cinema.
La sceneggiatura appare stanca e opaca in alcuni passaggi – soprattutto in quelle parti che si scostano più temerariamente dalla pagina scritta – , quasi un interludio di dialoghi impersonali tra scene di azione sempre più spettacolari. Alcuni personaggi riescono meglio di altri: un Gandalf molto acciaccato rispetto al primo capitolo e alle prese con un redivivo Sauron; i Nani lasciati vagamente in secondo piano, con Thorin che emerge solo nella parte finale e fa il minimo sindacale; Bilbo sempre più signorotto dal televisivo humour inglese (si ha l’impressione che Martin Freeman fatichi ad uscire dal suo Watson televisivo di Sherlock); un inedito e ambiguo Thranduil, re fatale degli Elfi di Bosco Atro; un Legolas riesumato di peso e trasportato nel mondo de lo Hobbit, e il cui unico scopo sembra quello di strizzare l’occhio ai nostalgici della Compagnia dell’Anello a suon di capriole e virtuosismi; infine, il personaggio del prode arciere Bard, nel romanzo poco approfondito, è stato ampliato e impostato sul modello di padre di famiglia senza macchia e senza paura, di nobili origini ma decaduto al rango di sgualcito contrabbandiere dal cuore d’oro.
Affascinante la ricostruzione della Città dei Nani di Erebor e suggestiva quella della cittadina lacustre di Ponte Lagolungo, che tanto ricorda una città fiamminga del XIV secolo: si rimane perplessi, quindi, di fronte allo studiato indugiare della cinepresa sui volti di comparse dai tratti africani e orientali, in questa sorta di fiabesca e uggiosa Bruges medievale. Se gran voci di comitati e associazioni avevano, a posteriori, contestato al Peter Jackson della prima trilogia l’assenza di personaggi neri o asiatici che non fossero solo mercenari dell’esercito di Sauron, qui le richieste più variegate sembrano essere state accontentate. E poco importa se Tolkien, ispirandosi all’antica Inghilterra e alla mitologia norrena per l’impostazione della sua Terra di Mezzo, non aveva fatto i conti con l’impero del politicamente corretto che avrebbe seguito di mezzo secolo la pubblicazione dei suoi romanzi, evitando di infilare a forza, tra i suoi cavalieri e dame medievali, afroamericani in cotte di maglia e velluti. Ci si domanda, quindi, se tali j’accuse! considerino, all’inverso, storicamente attendibile il far calzare da un rosso irlandese a caso i panni di un personaggio della poesia epica subsahariana o del Rāmāyaṇa indiano. E restando in tema di par condicio e quote razziali e rosa, veniamo dunque alla pietra dello scandalo che tanto clamore ha destato tra fan e detrattori: l’introduzione del personaggio integralmente cinematografico di Tauriel. «Niente donne sull’Isola del Tesoro» aveva ordinato, perentorio, il dodicenne figlio della compagna di Robert Louis Stevenson ai primi accenni delle avventure di Jim Hawkins e Long John Silver.
Non l’hanno pensata allo stesso modo gli sceneggiatori de La Desolazione di Smaug che, alle prese con la patata bollente di un campionario di personaggi tutto al maschile, hanno sentito l’esigenza di confezionare, su misura dei nuovi canoni del blockbuster, la fotogenica guerriera Elfo a capo della guardia di Bosco Atro. La scelta di Evangeline Lily e l’innesto di Tauriel in un superficiale quanto sgangherato triangolo amoroso interracial, che la vede contesa tra lo sfrontato e piacione nano Kili (peste e corna piovute dai tolkieniani per il bieco e immediato flirtare dei due sul presunto contenuto del cavallo dei pantaloni nanici) e un mai così bisteccone Legolas – un Orlando Bloom appesantito nel fisico e nell’interpretazione – sembrano assecondare il gusto del grande pubblico televisivo: la stessa Lily e un analogo triangolo avevano tenuto i milioni di spettatori di Lost, la fortunatissima serie di J.J. Abrams, incollati al divano per ben sei stagioni. Nonostante le accorate dichiarazioni di Jackson sul fatto che fosse stata concepita come una sintesi cinematografica di alcuni dei personaggi femminili di Tolkien, Tauriel molto sembra spartire con le contemporanee eroine televisive e ben poco le rimane, invece, dei personaggi femminili della prima trilogia, sia che si tratti della statuaria Galadriel di Cate Blanchett o dell’appassionata Arwen di Liv Tyler, alla quale sembra però fare il verso in un paio di sequenze che, più che citare, sembrano mal ricalcare La Compagnia dell’Anello (una su tutte la scena della mistica guarigione di Frodo/Kili dal veleno delle lame Morgul). Non ha nulla nemmeno della nordica e tragica Eowyn, volitiva vergine guerriera che – pura citazione del topos letterario – svela le biondissime trecce in battaglia come la Clorinda di Tasso, per scoprire la propria femminilità repressa solo dopo l’incontro con la morte. Piallata su un personaggio fatuo che somiglia ad una sorta di eterna adolescente tutta muscoli e sospiri, la stessa interpretazione della Lily sembra preda di vistosi segni di disagio.
Insomma, chi si aspetta quasi tre ore di grande spettacolo sarà accontentato: il ritmo narrativo, salvo alcuni buchi neri, è avvincente, gli effetti visivi funamboleschi e l’illusione di trovarsi catapultati in una potenziata Terra di Mezzo, tutto sommato, funziona. Rimarrà deluso chi spera di trovare al cinema lo spirito di Tolkien e la celebrazione contemporanea dell’epica occidentale: per quello ci sono i romanzi. E non è una magra consolazione.