La storia. D’Annunzio e la Duse, un amore improbabile

Il poeta: "Io sono infedele per amore, anzi quando amo a morte".  E l'attrice: "Libero sei verso di me come verso la vita"

Duse e D'Annunzio

Nel 1882 c’è il primo incontro tra D’Annunzio e la Duse, a Roma o a Napoli? Chissà.  D’Annunzio ha un approccio decisamente sessista, le propone un contatto carnale, lei si scandalizza, o sembra. Leggenda? Eventualmente dubbioso quel suo turbamento, caso mai è ritrosia, indifferenza.  La vita l’ha già addentata con crudeltà compresa un’infezione ai polmoni contratta calpestando “il tavolaccio”. A 4 anni è già Cosetta ne “I Miserabili”. Il contatto tra loro  però non è spento. Segue ed apprezza le sue opere letterarie, spettegola: “D’Annunzio lo detesto, ma lo adoro.”

Nel 1892 a Venezia in un biglietto gli scrive: ”Vedo il sole.” Si incontrano, si annusano all’Hotel Danieli. Madrina la Matilde Serao amica dell’attrice e con Gabriele redige il quotidiano romano “Capitan Fracassa”. Questo è riferito nei libri con molti particolari. Ed ecco l’inghippo. Tom Antongini, il segretario di D’Annunzio riporta una  versione diversa. La presentazione tra loro è nel 1897 al Grand Hotel di Roma tramite gli amici Adolfo de Bosis, Edoardo Scarfoglio. La passione esplode a Vienna dove si recano per la rappresentazione della “Gioconda”. 

Come non credere a lui? Oscar Wilde ha detto che tra gli amici di un grand’uomo c’è sempre un Giuda, come fra gli Apostoli, ed è chi ne parla. Antongini si dichiara Giuda di D’Annunzio. Dice che Gabriele è alto un metro e 64, pesa kg. 75.  Sa tutto. Si dilunga persino sugli impicci con l’autorità giudiziaria di Siena per una contravvenzione elevata per eccesso di velocità il 31 agosto 1909. Il mito della velocità condito di parole nuove conferma l’embrione del futurismo, è spia del carattere sfrenato di D’Annunzio. Comunque o qui o là, prima o dopo l’incontro  c’è stato. Vanno a convivere a Settignano nella Villa La Capponcina, Firenze. Poco distante, dall’altra parte della strada, c’è la Villa di lei, La Porziuncola.

II connubio: Il Vate, il poeta sacro, l’immaginifico e lei la Divina, la più grande attrice. Una sinfonia incandescente, palpitante, vissuta e  strimpellata nei suoi aspetti pruriginosi al popolo guardone. I loro messaggi,  i tanti messaggi. “Ghisola dolce…  Non fui mai tanto ardente. Ti bacio le mani. Ti amo. Vieni!” Gabri. “Gabri! Ah che schianto del core l’andare lontano!” Eleonora.

Naturalmente il gregge, peraltro sparuto, dei disamorati,  perfidi e sterili,  inveisce: Gabriele ha una moglie! Ha dei figli: Mario, Gabriellino, Ugo Veniero. E quest’amore è un habeas corpus, il corpo del reato. La moglie partorisce  nel contempo dell’amante. Ma lui è oltre a tutto. Per lui  il peccato è il normale, il banale, la mediocrità.

L’amore tra la Duse e D’Annunzio è amore o accordo commerciale? Lei vuole rinnovare il repertorio che ritiene obsoleto e lui trovare un palcoscenico per le sue opere. E trova i soldi, molti soldi, perché lei gli produce le tragedie. Si può pensare a una simbiosi tra due persone: lei carpisce la poesia che c’è in lui e lui cattura la sua capacità di dare un’anima alle parole.  Troppo semplice. In quanto artisti esiste una forza centrifuga che li scaglia lontano l’uno dall’altro. Lo sanno e affermano: “Ci siamo uniti per essere divisi.” L’esagerato per loro è il consueto, l’esaltazione pasto quotidiano. “Voglio possederti come la morte possiede.” E ancora: “La follia non è più ricca di te!” Gabriele. Per lei è il poeta infernale. Sono cannibali l’uno dell’altro ma i denti non affondano nella loro crosta, scorza di ceppi resi coriacei dalla presunzione.  Nei loro brindisi la cicuta dell’ambizione e della rivalità.

Il loro background amoroso? La Duse a vent’anni ha una relazione con il giornalista Martino Cafiero, donnaiolo e snob. Per lui è Nennella. Resta incinta e lui si dilegua, “la trattò come una serva”. Il bambino muore dopo il parto. Eleonora invia la foto con “il figlio della colpa” morto al padre che cinico risponde: “commediante”.  Sarà punito dal colera.  Nel 1881 sposa Tebaldo Marchetti, un attore della Compagnia e nasce la figlia Enrichetta.  Il matrimonio dura quattro anni. Dopo un presunto rapporto con Flavio Andò, altro attore, subentra Arrigo Boito, librettista di Verdi ed esponente della scapigliatura milanese.  Ha 16 anni in più, quasi un padre. Il Boito pretende però di tenere segreta la liaison bocciando le speranze familiari della Duse.  Permane il dubbio di un tronco netto all’arrivo di Gabriele, si sussurra di un triangolo protrattosi per qualche tempo: 4 anni!

Più colmo il carnet di Gabriele. Nel 1883 sposa la duchessa Maria Hardouin, dalla quale avrà tre figli. Dopo pochi anni avviene la separazione e c’è la Barbara Leoni una bella romana di Trastevere, la Vellutina. Poi la contessa Maria Gravina, Moriccia, con l’inconveniente di un loro processo con condanna per adulterio. E la nascita di altri due figli, oltre i quattro della donna. Giunge la Roudinì…  e poi un “delirio senza amore” anonimo. Un’infinità di pollastrelle sedotte e spiumate. Per D’Annunzio la fedeltà è la menzogna più diffusa: ha il suono di catene. “Io sono infedele per amore, quando amo a morte.”

Eleonora ha frequentato poche scuole a causa del nomadismo, la sua una famiglia di girovaghi. Ha tratti accentuati,  non usa trucco, impone il suo pallore. In scena si commuove e piange veramente ma gira la schiena al pubblico che percepisce il pianto senza vederlo. Vive la vigilia delle première come una veglia quaresimale. Mostra il seno nudo senza vergogna e senza destare scandalo. Quando recita si trasfigura. È come una medium che evoca personaggi morti che si incorporano in lei e lei in loro. Aggiunge eventi della sua vita ai copioni e il pubblico è ipnotizzato.

Giacosa parlando di lei: “Ama la sofferenza, è una donna tormento.” Ha delle crisi isteriche che D’Annunzio mal sopporta, è invadente, ossessiva. Se ne lagna con l’amico Primoli, il fotografo figlio di Carlotta Bonaparte. A “La Capponcina” ci sarebbero le premesse per una grande storia d’amore ma i protagonisti sono due narcisi muniti di forcipe impegnati nell’escissione abortiva.

Nel 1902 per le vacanze al mare si spostano in Versilia, in una  Villa a Secco Motrone. La Duse rinviene la lettera di una certa Liana che concorda un appuntamento con il poeta. Sconcertata e adirata fa le valigie. Giunta ad Arezzo scrive ad Annibale Tenneroni, per amicizia candido fratello: “… e a me mi parve di perdere lui, non delle giornate di senso giustamente donato ad altra ma qualche cosa dell’anima sua.” Si pente immediatamente, ritorna da dove è fuggita. Si rimette ubbidiente e docile con la sua borsa generosa ad occupare il posto che il D’Annunzio più che il destino le hanno assegnato.  Ed è pronta a ripartire per le tournèes, Russia, America, a recuperare l’oro per il suo figlioletto Gabriele. Boston, ottobre 1902. “Gabri, amore, dolcezza – figlio mio piccolo – forza mia bella, speranza e pena mia! Cinque recite di fila…”

Prima della sua  partenza  è accaduto un episodio spiacevole, sconcertante. Ha consegnato a Gabriele il denaro per pagare la retta del collegio di Cicciuzza, figlia della Gravina, ormai è una famiglia allargata, e lui si è comprato un cavallo: cinquemila lire.  Questo e il saccheggio degli antiquari sono la riprova che soffre di shopping consultivo, che è preda del suo “vivere inimitabile”.

Nel 1904 la tormentata storia della Duse con D’Annunzio termina. Interviene l’Antongini con la sua diagnosi. Una legge inesorabile impone agli amori nel tempo di sgretolarsi.  Inoltre D’Annunzio non appena    ottiene un consenso amoroso adombra una nuova passione.   Palese ne “Il fuoco”: Stelio ama Foscarina ma già concupisce la Donatella giunta in quel momento. Questo avviene con gli strilli delle decadute, tramutate in sorelle. Sulla deriva della dimora, La Capponcina, D’Annunzio scriverà: “Un branco di scimmie calpestò e distrusse…”

A Venezia i riverberi acquitrinosi, ombrosi e falsi, dei canali confondono la realtà con l’irrealtà.  In una sorta di rito magico la Duse conosce il poeta austriaco Rilke. Lei ha 54 anni ed è disperata, infelice, precocemente aggredita dal tempo.  Lui è più giovane, ha 37 anni, un esile giunco. Si invaghisce dell’attrice, è ammaliato da quel fascino seppure sfiorente. Se ne innamora. La vuol salvare da quella senescenza ma ha il terrore che si possa trasferire a lui.  Si tocca, si specchia. Tutto un luglio insieme a progettare impegni scenici. C’è un ostacolo, l’eccessivo legame che l’attrice ha con Lina Poletti, una scrittrice omosessuale. Questa l’accompagna nei viaggi, la irretisce con le sue angosce. Rilke ne è angustiato, desiste. Si affida alla fantastica comparsa di un cervo per fuggire.

L’amicizia tra le due donne, la Duse e la Poletti, finirà male con una causa legale per manoscritti contesi. La Poletti celebra Giovanni Pascoli, compone “Il poema della guerra”, e si unirà per il resto della vita a una contessa ravennate.

Nel 1917  D’annunzio e la Duse riprendono a scriversi. Il poeta usa “una tenerezza equivoca” mentre l’attrice svicola prudentemente nell’amicizia.  Non appena ritornato dall’incursione nella baia di Buccari, dove con le motosiluranti e le sue bottiglie ha sconvolto e deriso il nemico, le inoltra un telegramma: “Tornato felicemente… coi due smeraldi.” I famosi smeraldi, dono di lei, che ogni tanto per necessità lui impegna.

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Gianfranco Andorno

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