Byung-Chul Han e il ritorno della sovranità nello spazio pubblico al tempo del capitalismo digitale

Una nuova rivoluzione conservatrice o restaurazione rivoluzionaria potrà avvenire - se mai avverrà - solo con un nuovo Sovrastato continentale che possa accentrare potenza, strategia e la rappresentanza degli interessi diffusi e profondi delle moltitudini, dando una direzione finale e chiara allo sviluppo anarchico del capitalismo tecnologico

Il saggio di Byung-Chul Han

Il filosofo coreano Byung-Chul Han ha suscitato notevole interesse con la sua provocazione sul perché sia oggi impossibile una rivoluzione. Effettivamente è come se una cappa avvolgesse tutti noi, ossia la rassegnata consapevolezza che sia tutto già scritto e determinato e che ogni “cambio di ritmo” nel percorso storico sia ormai impossibile. Immaginare che lo status quo diventi “eterno”, non dovrebbe deprimere soltanto le cosiddette teste calde ma anche chiunque abbia una minima coscienza politica.

Con Francis Fukuyama si era già parlato di “fine della storia” con il trionfo del modello democratico occidentale nella sua declinazione tecno-liberale. Ebbene sì, al di là di tanti distinguo e virgole, i tentativi di erigere un mondo diverso franarono prima nel 1945 con la fine dei fascismi e poi nel 1989 con quella del comunismo. Regimi che tentarono di dirigere in modo diretto e autoritario un cambiamento antropologico, che generava svariate resistenze. Il regime neo-liberista è invece stabile proprio perché si immunizza contro qualsiasi resistenza, usando la libertà invece di opprimerla. Questa la tesi di Han: se l’oppressione della libertà suscita resistenza, lo sfruttamento della libertà no. Il potere stabilizzante non è più repressivo bensì seduttivo, non è più visibile con una controparte evidente o un nemico che opprime la libertà come nei passati “regimi disciplinari” contro cui sarebbe almeno in teoria sempre possibile opporsi. Il potere globalizzato dell’acronimo FAANG (Facebook, Apple, Amazon, Netflix e Google) retto dagli USA, non funziona con divieti e restrizioni ma facendo leva sul piacere e la soddisfazione dei desideri, rendendo le persone dipendenti, non remissive. Oggi effettivamente ci denudiamo volontariamente nel “panoptikon digitale” in cui non siamo solo prigionieri ma attivamente carnefici, contribuendo alla sua creazione e alimentandolo continuamente unendoci ai milioni di seguaci, caricando volontariamente tutti i dati attivi dei nostri corpi. Il nuovo dominio non impone il silenzio, anzi ci stimola a condividere, partecipare, esternare opinioni, bisogni e preferenze e a raccontare la nostra vita. Oggi siamo elementi attivi del sistema rinunciando agli spazi protettivi ed esponendoci a reti digitali che ci passano ai raggi x. Geremy Bentham aveva immaginato il “Panopticon”, cioè una sorta di prigione circolare che rendeva visibile tutta la vita dei prigionieri da un punto centrale. Una distopia diventata realtà.

La sorveglianza panottica non è un fenomeno solo asiatico: noi viviamo già da tempo in un panottico digitale globale. I social network sorvegliano e sfruttano i loro internati e noi ci denudiamo di nostra sponte non per vie costrittive, ma sulla scorta di un bisogno interiore. Ci chiedono di esprimere opinioni e bisogni e i nostri dati vengono utilizzati dalle piattaforme digitali per influenzare i comportamenti di consumo arrivando ad uno spietato sfruttamento economico. Più partecipiamo come “cittadini consapevoli e attivi”, più il sistema si rafforza.

Perché questo panoptikon avrebbe dovuto arrestarsi davanti alla pandemia?

In un quadro pandemico la sorveglianza è diventata biopolitica, non solo la comunicazione ma anche i nostri corpi e la nostra salute divengono oggetto di sorveglianza digitale.

La rigida protezione dei dati personali garantita dall’Occidente liberale ma soprattutto dall’Unione Europea, impedisce la sorveglianza statale dell’individuo, mentre in Asia non vi è invece alcuna coscienza critica contro la sorveglianza digitale, ma visto che in Occidente non esiste la possibilità di trasformare l’individuo in oggetto di sorveglianza, restava solo (altra pungente riflessione di Han) l’opzione di un lockdown totale dalla massicce conseguenze economiche. L’Occidente giungerà dunque alle conclusioni drammatiche che solo una biopolitica che consenta un accesso illimitato all’individuo è in grado di impedire la catastrofe economica legata alla protezione della privacy, che funge a sua volta, da protezione per il virus ma questa conclusione segnerà la fine del liberalismo. In buona sostanza, il neo-liberismo ha rischiato di implodere davanti all’esperienza pandemica: riscoperta dello Stato e del pubblico dominio sulla libertà di movimento dei cittadini, prevalenza della sicurezza e della salute sugli interessi economici privati, accorciamento delle filiere produttive, relativa autarchia sui beni strategici e non solo. Il liberalismo occidentale è stato messo in crisi dalla pandemia, anche perché i modelli asiatici hanno funzionato meglio come risposte alla sfida.

Il modello asiatico di lotta al virus era incompatibile con quello occidentale attuale (non di quello europeo medievale o di quello europeo tra le due guerre del XX° Secolo): in Asia al posto dell’individualismo c’è un collettivismo di una società disciplinare e le misure disciplinari sono percepite come un mero adempimento di doveri collettivi e non come una limitazione dei diritti individuali. Nel loro insieme queste peculiarità del contesto asiatico si sono rilevate vantaggi sistemici nella lotta alla pandemia. Questa la riflessione del filosofo coreano.

Ecco perché i guaiti anarcoidi dei nomask, novax, no-greenpass lungi dal risultare “ribelli al sistema”, hanno invece puntellato il regime neo-liberista per cui l’individualismo è superiore a qualsiasi interesse pubblico, ad ogni etica sociale ed organica ed a qualsiasi dovere collettivo verso la propria comunità politica.

Schiavi volontari del panottico dei FAANG per spirito ludico ed esibizionista, ma ribelli all’idea che la medesima tecnica possa servire a vincere una sfida cruciale per la sopravvivenza e la prosperità della propria nazione.

E’ davvero finita la storia col trionfo invincibile del neoliberismo a cui tutti devono piegarsi? Dunque non è più possibile una rivoluzione? Lo scardinamento di un sistema (sia oggi che ieri) non può mai avvenire in modo puramente antagonista ma in modo realista, quando una élite evita di farsi annientare le forze dalla corrente di risacca ma la sfrutta nuotando in obliquo per farsi spingere dalla sua forza superandola del tutto nel suo punto di rottura. La tecnica come strumento politico e non come nemico metafisico.

Forse può essere questa la risposta da dare a Byung-Chul Han: oggi l’elemento rivoluzionario è ogni luogo in cui si sviluppa con proiezione esponenziale una sovranità politica consensuale. Magari sì, “ci vorrebbe più Europa”, ma di certo molto diversa da quella goffa e balbettante che conosciamo oggi.

Una nuova rivoluzione conservatrice o restaurazione rivoluzionaria potrà avvenire – se mai avverrà – solo con un nuovo Sovrastato continentale che possa accentrare potenza, strategia e la rappresentanza degli interessi diffusi e profondi delle moltitudini, dando una direzione finale e chiara allo sviluppo anarchico del capitalismo tecnologico.

L’alternativa non sarà soltanto che non avremo più rivoluzioni, ma che lentamente Stati, Regioni, Comuni saranno solo simulacri insignificanti a cui si sostituirà il ritorno di un feudalesimo mafioso in cui la società si dissolve e resteranno solo vassalli in cerca di protezione del barone o del potente di turno a cui prestare giuramento di fedeltà.

Così al culmine del trionfo dei poteri anonimi, tecnologici e globali ormai invincibili, nel territorio concreto il peggior medioevo si prenderà redivivo beffe della fallita post-modernità. Francamente una soddisfazione assai amara.

Proviamo allora a ribaltare la provocazione iniziale: oggi è davvero così definitivamente impossibile pensare una rivoluzione?

@barbadilloit

Pietro Ferrari

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