I Greci e la vita “nuda” raccontata dal tuffatore di Paestum

Alla storica scoperta l'archeologo Tonio Hölscher, dell’Università di Heidelberg, ha dedicato un importante saggio

Il tuffatore di Paestum, edito da Carocci

Il 3 giugno del 1968, gli archeologi coordinati da Mario Napoli, durante gli scavi condotti nella necropoli della città di Paestum, realizzarono una scoperta straordinaria. Fu da loro individuato e aperto un sepolcro, da allora definito “Tomba del tuffatore”, che custodiva pitture parietali tra le più ammirate del mondo antico. L’archeologo Tonio Hölscher, dell’Università di Heidelberg, ha riportato l’attenzione su quel ritrovamento nella pagine del volume, Il tuffatore di Paestum. Cultura del corpo, eros e mare nella Grecia antica, nelle librerie per Carocci (pp. 125, euro 16,00). Si tratta di un testo di grande interesse: in esso l’autore, attraverso l’esegesi delle pitture in questione, presenta la concezione della vita e della natura proprie dei Greci. Il percorso ermeneutico di queste pagine presuppone, come aveva suggerito Bachofen, che gli interpreti dell’Antico si liberino dei luoghi comuni e dalla visione del mondo moderna, al fine di cogliere oggettivamente il senso della vita che si evince dalle testimonianze del mondo classico.

    Paestum in origine si chiamava Poseidonia, era città posta sotto la protezione del dio del mare. Era stata fondata da coloni provenienti da Sibari poco prima del 600 a.C. Sorta nei pressi della  foce del fiume Sele, circondata da una pianura ubertosa, la città andò accrescendo la propria ricchezza, come attestato dagli splendidi templi ancora oggi visibili. Divenne, infine, colonia romana nel 273 a.C., assumendo il nome con il quale ancora oggi è nota. Sulle quattro pareti del sepolcro: «sono raffigurati uomini giovani e adulti, in maggioranza sdraiati a coppie su letti conviviali nell’atto di celebrare il simposio» (p. 13). Nonostante la bellezza delle rappresentazioni  in questione, il dipinto della tomba che, più di ogni altro, ha colpito gli osservatori è quello realizzato sulla copertura del sepolcro: vi è ritratto il “tuffatore” collocato in un paesaggio tratteggiato con estrema finezza ed essenzialità: «Vediamo uno specchio d’acqua dalla superficie lievemente increspata, mentre sulla riva si staglia un edificio simile a una torre […] È da lì che un giovane ha spiccato il salto […] il corpo nudo, teso in tutta la sua eleganza» (p. 15). La scena è immersa in una natura vasta, libera, nella quale compaiono, stilizzati, due alberi.

   Il fascino dell’immagine e il fatto che si trattava di una pittura sepolcrale hanno indotto molti studiosi a proporre una sua esegesi simbolica. Il tuffo del giovane è stato, infatti, per lo più letto quale simbolo del passaggio dalla morte all’aldilà. Si tratta di una lettura mistica, escatologica. In essa, l’immagine della torre funge da confine tra mondo terreno e ultraterreno e il tuffo in acqua altro non starebbe a indicare se non un rito di purificazione necessario al transito verso la vita eterna. 

  Al contrario, Hölscher si fa latore di un’interpretazione realista della scena del “tuffatore”. Essa va letta alla luce delle consuetudini di vita delle colonie della Magna Grecia, in particolare di quelle   delle giovani generazioni. Un precedente delle raffigurazione della “Tomba del tuffatore” è rintracciato in Etruria, nella “Tomba della caccia e della pesca”: «Sulla parete di fondo […] è raffigurato un giovane in piedi sopra un’alta rupe a picco sul mare; con la fionda tesa dà la caccia a uno stormo di uccelli» (p. 27), mentre da una barca altri giovani gettano in mare delle esche. La parete laterale sinistra presenta un giovane che si tuffa di testa nell’acqua marina. La rappresentazione di Paestum e quella di Tarquinia rinviano, a dire dell’autore, a quella delicata fase della vita dei giovani, che riguardava tanto le ragazze quanto i ragazzi, propedeutica alla loro accettazione nella società degli adulti. I ragazzi erano costretti a lasciare gli ambienti protetti dove, fino ad allora, avevano vissuto, la famiglia e la Città, e a recarsi in spazi selvaggi che potevano essere tanto le selve quanto le scogliere marine.

   Il nuoto e l’arte del tuffo, prove di coraggio, erano considerate parte integrante dell’educazione necessaria per diventare adulti virtuosi. In tale percorso formativo, i giovinetti erano seguiti da “anziani” che provavano nei loro confronti un’ attrazione omoerotica, attestata dalle scritte trovate sulla scogliera della punta meridionale dell’isola di Taso: «Si tratta […] di apprezzamenti che gli amanti adulti rivolgevano ai loro giovani favoriti» (p. 33), mentre come in altri luoghi appartati e selvaggi, questi mostravano la potenza del loro corpo nudo in pratiche atletiche o nei tuffi. Quindi, in tale ottica: «Il tuffo di testa in mare rappresenta il culmine di una fase fondamentale dell’esistenza: condensa in sé […] il lento passaggio dall’infanzia alla condizione adulta» (p. 37). Anche l’iniziazione femminile alle virtù muliebri, atte a facilitare una serena vita matrimoniale, dedita alle cure per la prole, prevedevano, come mostrano molti reperti vascolari, il contatto con l’elemento acqueo. Le giovani di Atene nella fase di passaggio all’età da marito si recavano sulle coste dell’Attica dove, di fronte al mare o in boschi oscuri, si ergevano santuari della dea Artemide. Qui esse, proprio come i giovinetti, dovevano dar prova delle loro qualità fisiche. Siamo di fronte, suggerisce Hölscher, a una cultura marcatamente sociale-comunitaria, centrata sui valori della corporeità, della “nuda vita”.

    Le pitture parietali della “tomba del tuffatore” mostrano che per i morti di sesso maschile: «La raffigurazione includeva, da un lato gli ideali della virilità […] dall’altro la sfera della vita felice, il simposio e le gioie della gioventù» (p. 80). Alla morte, alla sua ineluttabilità, i Greci rispondevano con immagini di pienezza vitale, di vita “in fioritura”. La certezza del limite vitale e quella del dolore non intaccavano minimante la gioia di vivere dei Greci, in quanto Dioniso, dio che presiedeva al simposio, e Afrodite, dea dell’Amore, garantivano la coesione sociale e il legame tra generazioni, garantivano la Tradizione. Il corredo pittorico della “Tomba del tuffatore” riconduceva il defunto al mondo sociale di cui aveva fatto parte in vita, quale membro prima degli efebi e, dopo le prove legate al tuffo, a quella dei simposiasti. I Greci di Paestum, pertanto, miravano oltre l’individuo a due sole realtà: innanzitutto alla physis, ma anche alla “Città degli dei”. Il senso del limite della vita accompagnato dall’idea della bellezza è perfettamente testimoniato, rileva Hölscher, da questa iscrizione di una statua commemorativa di un giovane ateniese: «Guarda l’effigie sulla tomba di Kleoitas e piangi, com’era bello e pur dovette morire!» (p. 84).

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Giovanni Sessa

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