Il regno di vetro di Lawrence Osborne e la bellezza superstite di Bangkok

Lo scrittore anglosassone è un ispirato cantore dell’inestricabile viluppo culturale di tradizione e postmodernità che si origina in certe città del sud-est asiatico

Il regno di vetro di Lawrence Osborne

Il regno di vetro di Lawrence Osborne

Risalente a meno di un anno fa, l’ultimo romanzo di Lawrence Osborne, “Il regno di vetro” (Adelphi, 2022, 20 euro), è la dimostrazione dell’infinita capacità di variazioni sul medesimo tema dello scrittore britannico che, più che erede di Graham Greene, sembra, in questa sua avventura thailandese, un mix tra Ballard, l’Houellebecq più fortunato e battagliero, quello di “Estensione del dominio della lotta” e Myung-Hoon Bae, autore coreano di “La torre”, bizzarro esperimento fantascientifico a cavallo tra surrealismo e iperrealismo edito l’anno scorso da Add Editore con le splendide illustrazioni di Lucrezia Viperina.
Ma se il Kingdom, il “regno di vetro” lussuoso e artefatto sul cui sfondo si muovono le tre protagoniste “palesi” e gli almeno due protagonisti “nascosti” di questo romanzo, rischia di ricordarci troppo l’ambientazione di un racconto fantascientifico coreano, la crescente pressione esterna della manodopera locale sull’orlo della sedizione – come sempre, nei romanzi di Osborne, contrapposta ai ricchi e viziosi farang europei o americani – riporta la narrazione su un piano “umano, troppo umano”, come direbbe Nietzsche, lasciando intuire al lettore quanto la situazione politica thailandese e i rapporti tra le diverse etnie e le classi sociali siano misteriosi e indecifrabili, specialmente per noi occidentali:

“Le tensioni venivano sempre immagazzinate, insabbiate dalle caratteristiche innate della discrezione e della ripulsa verso il conflitto. Conservate appena sotto la superficie, sobbollivano con pacata assiduità e si potevano percepire solo con una mente sintonizzata sui suoi ritmi. Chi fosse venuto da lontano avrebbe creduto alla calma, fino al momento dello schianto del sistema e del ritorno degli odi antichi. Poteva avvenire nel giro di una sola giornata…”.

E se l’egotico Houellebecq è talmente concentrato sul suo altrettanto egotico protagonista di turno da non lasciare spazio a co-protagonisti e tantomeno al paesaggio circostante, Osborne invece, dal canto suo, ha scritto un intero libro su Bangkok pressoché senza protagonista, assai baudelairiano, e anche nella sua ultima fatica riesce a bilanciare gli sviluppi della trama con piccole perle descrittive come questa:

“Ximena apprezzava i vecchi quartieri. La loro innocenza sfiorita, le strade che non dovevano esistere. Il passato condannato a priori per il reato minore d’essere passato. Questa era la bellezza superstite di Bangkok: viali come caotici negozi di reliquiari; una decomposizione con al suo interno un oscuro nettare umano”.

Emerge plasticamente da queste poche righe che Osborne, a differenza di molti suoi epigoni, non è un tedioso reazionario moralisticamente pronto a cogliere ogni occasione per criticare o a schernire la società occidentale mascherandosi dietro a una narrazione di facciata, bensì, al contempo, un critico e un ispirato cantore – il migliore, forse, insieme a Sylvain Tesson – dell’inestricabile viluppo culturale di tradizione e postmodernità che si origina soprattutto in certe città del sud-est asiatico, e che differisce da una certa visione irenica dell’integrazione per la sua imprevedibile ferinità, che è ciò che affascina e al contempo repelle gli occidentali protagonisti dei suoi racconti, sempre alla ricerca (complici l’alcol, la droga e il sesso occasionale) di forti emozioni per scuotersi dalla noia che nasce dal benessere.

“Erano perennemente vulnerabili. Anzi, era questo che le piaceva, sebbene non fosse molto logico sul piano razionale. Ma fu certa che la faceva sentire più viva. Ogni giorno c’era una piccola sensazione di rischio, di transitorietà. Il Kingdom li proteggeva, conferiva loro uno status, ma metteva anche in chiaro che nella dimensione sociale non valevano uno zero. Era un rifugio, una prigione, una fantasia e una macchina abitativa del lusso, contemporaneamente”.

Lawrence Osboure

Poco cambia, poi, che nel thriller esotico subentri un twist da ghost story sul finale: il gusto della lettura è sempre lo stesso. Come suggerisce, forse poco elegantemente, un detto livornese che però non manca d’arguzia, “meglio lei nuda che lui vestito a festa”: ecco, meglio un Osborne nudo che un Houellebecq vestito a festa…

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Camilla Scarpa

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