Un’Europa in cui credere e il gruppo di Vanenburg

Nel maggio del 2017, dopo il referendum britannico che decise la fuoriuscita dell'Uk dall’Ue, alcuni intellettuali, accademici e non, sottoscrissero un “manifesto” articolato in 36 punti che prese il nome di Un’Europa in cui possiamo credere

Notre Dame, Parigi: un gioiello di architettura europea

Nel maggio del 2017, all’indomani del referendum britannico che decise la fuoriuscita del Regno Unito dall’Unione Europea, cioè dopo il verificarsi del maggior punto di crisi della formula che pretendeva di tenere insieme 25 nazioni del Vecchio Continente, ignorando le radici culturali e storiche che potevano far da fondamenta all’edificio europeo, alcuni intellettuali, accademici e non, sottoscrissero un “manifesto” articolato in 36 punti che prese il nome di Un’Europa in cui possiamo credere.

Tra i più celebri di questi intellettuali è possibile rinvenire i nomi di Roger Scruton, maitre à penser del nuovo conservatorismo, Rémi Brague, membro dell’Accademia Cattolica di Francia e specialista di filosofia medioevale araba ed ebraica presso la Sorbona, Robert Spaemann, celebre filosofo tedesco, amico di Benedetto XVI, Pierre Manent, direttore di ricerca emerito in filosofia politica presso l’Ècole des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi.

In verità gli autori del documento non parlano mai di “manifesto”, preferiscono utilizzare i termini “dichiarazione” e “affermazione” e ciò non rappresenta una mera sfumatura di ordine lessicale, ha invece un senso ben preciso attinente al metodo e alle finalità del documento che ruota intorno alla definizione di quella che essi considerano la “vera Europa”, contrapposta alla “falsa Europa”.

Nel primo e secondo punto del documento essi così descrivono la natura antagonista dei due concetti di “vera Europa” e “falsa Europa”: «La casa è un luogo dove le cose ci sono familiari e dove veniamo riconosciuti, per quanto lontano abbiamo vagato. Questa è l’Europa vera, la nostra civiltà preziosa e insostituibile. […] L’Europa in tutta la sua ricchezza e grandezza è minacciata da un falso concetto di se stessa. Questa Europa falsa immagina di essere il compimento della nostra civiltà, ma in verità ha usurpato la nostra casa». Affermazioni coraggiose e forti se si pensa al panorama sconcertante del “politicamente corretto” che oramai sovrintende ed egemonizza ogni fenomeno culturale o che voglia dirsi e ritenersi tale.

Quindi la denominazione di “dichiarazione” e di “affermazione” del documento ha il senso di voler fortemente sottolineare la dimensione assertiva delle idee che vi sono espresse dando risposta ad un quesito che dovrebbe essere alla base di ogni riflessione sulla crisi contemporanea dell’idea di Europa: che cosa è l’Europa? Chi siamo veramente noi europei? Quando abbiamo, su queste stesse pagine, recensito il saggio di Domenico Burzo Il mito di Gige. Alle origini dell’identità europea, dicemmo che era necessario partire dalla frase che campeggia sull’oracolo di Delfi «Conosci te stesso».

Il primo errore che commettono i sostenitori ed i fautori della “falsa Europa” è quello di credere che le vicende umane, e quindi anche quelle della storia europea, deterministicamente si evolvano sempre e comunque secondo una linea di progresso continuo e perciò il passato della nostra civiltà è cosa ininfluente se non addirittura inutile rispetto a questo orizzonte avanzato verso cui marciano “le sorti magnifiche e progressive” del Vecchio Continente. La stessa definizione di “Vecchio Continente” oramai ha perso e smarrito la valenza positiva legata alla maggiore “esperienza storica”, ad una più solida e radicata sedimentazione dei principi che connotano l’umano pensare ed agire (il patrimonio di una saggezza millenaria) ed è divenuta indicativa di qualcosa di “passatista”, retorico, vano, inutile rispetto ai traguardi del futuro. In tal senso la cancel culture e la woke culture stanno rafforzando ed imprimendo un’accelerazione incalzante ed irrefrenabile a tali processi. Proprio ciò giustifica il dover comprendere chi siamo e cosa siamo, in quanto europei, proprio ciò rinverdisce il valore ed il senso del responso oracolare del “Conosci te stesso”.

Il primo elemento identitario che connota l’idea di una “vera Europa”, secondo il Gruppo di Vanenburg, è il connubio tra libertà e solidarietà, persona e comunità. La persona ha un suo inviolabile spazio che, come una tessera di mosaico però, deve poter riconnettersi ad un orizzonte più ampio che è quello della comunità: la famiglia, la polis, la patria. La “falsa Europa” invece oscilla tra “libertinismo” e “dispotismo burocratico”. Da una parte si riscontra un’assoluta esasperazione della logica dei diritti fino a rompere e recidere traumaticamente il legame che tiene insieme la persona (con il prevalere di certe pulsioni sul dominio di sé) e le comunità ad iniziare dalla prima comunità naturale che è la famiglia. «Non siamo soggetti passivi sottoposti al dominio di poteri dispotici, siano essi sacri o laici. E non ci inginocchiamo davanti all’implacabilità delle forze storiche. Essere europei significa possedere la facoltà di agire in politica e nella storia. Siamo noi gli autori del nostro destino comune».

Alla base di questo atteggiamento, fortemente connotativo dell’identità europea, vi sarebbero la “tradizione classica” e quella cristiana da cui l’Europa trae ispirazione. Dalla “tradizione classica” la “vera Europa” ha derivato il senso della partecipazione alla vita politica e lo spirito di indagine filosofica. Da quella cristiana è derivato un rafforzamento del concetto di dignità della persona, unitamente all’idea di un’unità nella diversità che dovrebbe connotare un processo di riconciliazione su base europea delle nazioni che costituiscono il Vecchio continente. «L’impero spirituale universale della Chiesa ha prodotto l’unità culturale dell’Europa, ma non lo ha fatto attraverso un impero politico e questo ha permesso che all’interno della comune cultura europea fiorissero forme di lealismo civili particolari.»

A questo concetto di base si connette la visione dell’Europa come “comunità di nazioni”, laddove lo Stato – nazione che si è andato affermando dopo il Medioevo è diventato «la forma politica che unisce l’essere popolo alla sovranità […] il tratto caratteristico della civiltà europea». Perché, in questo aspetto, al Gruppo di Vanenburg appare decisivo il contributo dato dalla Tradizione cristiana? Il Vangelo cristiano, a differenza di altre religioni ed altri testi sacri, non impone una legge divina generale a valenza politica e civile, ciò ha consentito alle varie nazioni europee di elaborare e darsi proprie leggi civili che possono essere affermate ed onorate senza arrecare nocumento ad una “vera unità europea”.  Il ripudio di queste radici oggigiorno ha finito per favorire il nascere e l’affermarsi di un moloch burocratico e dispotico fatto di leggi, regole, danaro ed interessi particolari e materiali «ammantati da sentimenti di universalismo pseudo-religioso».

Il concetto dell’Europa delle Nazioni cui si riferiscono i firmatari della Dichiarazione di Vanenburg è stato ulteriormente approfondito da uno dei firmatari, il politologo Pierre Manent, in un suo libro dal titolo In difesa della nazione. Riflessioni sulla democrazia in Europa (Rubettino 2008). Al riguardo in un’intervista rilasciata a “La Verità” nel 2019 Manent ebbe ad affermare: «L’Europa di cui si parla a Bruxelles è in gran parte una finzione ideologica. La realtà dell’Europa, la sua realtà storica e politica, riposa sulla pluralità significante delle sue nazioni […] Esse si guardano, rivaleggiano, si imitano, si distinguono…L’identità europea non è separabile da questa dinamica delle nazioni che formano l’Europa.»

Questa identità non è un immutabile e scontato dato di fatto. È qualcosa di perennemente in fieri, «un progetto continuo non un’eredità sclerotizzata». Però, perché l’Europa abbia davvero un futuro, vi è necessità di una sua forma di “lealtà” verso le sue radici, le sue tradizioni migliori, la sua storia senza ricorrere ad una sorta di «perdita della memoria» ripudiando sé stessa o pensando che il suo punto di partenza sia il XVIII secolo e l’Illuminismo. «L’Europa vera è, e sempre sarà, una comunità di nazioni a volte isolate e talvolta ostinatamente tali, eppure unite da un’eredità spirituale che, assieme, discutiamo, sviluppiamo, condividiamo e amiamo».

La radice “mitica” (e per questo difficile da recidere) che è alla base della “falsa Europa” è un concetto di libertà che non ammette limiti, freni, condizionamenti. Non una “libertà per” ma una “liberazione da”. «Si spaccia per libertà la liberazione da ogni freno: libertà sessuale, libertà di espressione, libertà di “essere sé stessi”». L’affermarsi di questo errato senso della libertà è frutto della rivoluzione del Sessantotto, i cui esponenti si consideravano eccezionali liberatori, le cui trasgressioni avrebbero portato alle più nobili conquiste. Invece per le nuove generazioni europee, che a quella cultura sono state educate e formate, la realtà si è dimostrata ben più deludente ed affatto gratificante. L’edonismo indotto dalle ideologie improntate ai valori fondanti della “falsa Europa” ha condotto alla noia e ad un profondo senso dell’inutilità e della vacuità dell’esistenza; elementi già del resto presenti nella visione del mondo dei padri del Sessantotto a cominciare da Jean Paul Sartre. «Una libertà che frustra le ambizioni più profonde del cuore diventa una maledizione. Sembra che le nostre società stiano cadendo nell’individualismo, nell’isolamento e nell’inanità. Invece che alla libertà siamo condannati al vuoto conformismo di una cultura guidata dai consumi e dai media».

Accanto alla radice “mitica” della libertà, vi è anche l’influenza di un altro fattore carico e denso della forza derivante da una sorta di pulsione mitica. La “falsa Europa” si vanta di un’azione a favore dell’uguaglianza che non riscontrerebbe precedenti, a dire dei suoi sostenitori. Ma anche in questo caso si tratta di un falso senso dell’uguaglianza. L’uguaglianza predicata da costoro si è invece rivelata grigia omologazione ai valori dell’edonismo e del consumismo, processo che è stato favorito ed implementato esponenzialmente dalla globalizzazione che, di fatto, eliminando confini di ogni tipo, tutto avrebbe neutralizzato e reso inidentificabile. Come le vacche hegeliane nella notte oscura, nelle tenebre della globalizzazione non è ammessa alcuna identità particolare. 

Vi è inoltre una contraddizione ancora più forte rispetto alla pretesa di “garante dell’uguaglianza” assunta dalla “falsa Europa”. Per assecondare i processi di globalizzazione si sono insediate istituzioni sovranazionali che hanno visto nella partecipazione e nella “sovranità popolare” un inconveniente, una sorta di ostacolo da eliminare con la deleteria conseguenza di ingenerare un sempre più crescente deficit di democrazia. «Legittimati da presunte necessità economiche o attraverso l’elaborazione autonoma di una nuova legislazione internazionale sui diritti umani, i mandarini sovranazionali delle istituzioni comunitarie dell’Unione Europea avocano a sé la vita politica dell’Europa, dando a tutte le questioni sempre risposte tecnocratiche del tipo “non vi è alternativa”. Questa è la tirannia “morbida”, ma sempre più concreta, che noi oggi abbiamo di fronte.»

Alle ultime elezioni regionali (febbraio 2023) si è registrato in Italia il punto più basso in termini di partecipazione popolare al voto. Oltre tutte le analisi politologiche e sociologiche che si sono fatte, un senso incontrovertibile di questo fenomeno è la caduta verticale del senso civico, effetto largamente preannunciato dagli intellettuali di Vanenburg che hanno redatto la Dichiarazione. «I divertimenti popolari e il consumo materiale non alimentano la vita civica. Depauperate dei più alti ideali e impedite dall’ideologia multiculturalistica di esprimere il loro orgoglio patriottico, le nostre società trovano ora raramente la volontà di difendersi. In più, non saranno certo la retorica dell’inclusione o l’impersonalità di un sistema economico dominato da gigantesche multinazionali a ridare vigore al senso civico e alla coesione sociale». La compressione di un insopprimibile bisogno di identità e di solidarietà comunitaria spesso trova sfogo in fenomeni che di primo acchito sembrerebbero del tutto estranei a questa logica come il fanatismo e le tifoserie sportive.

Il processo di degenerazione e decadimento innescato dall’individualismo edonistico e consumista e dalla retorica dei diritti va ancora più in profondità quasi mirando a eliminare alla base il nascere delle società e delle comunità. Non è sufficiente minarne il senso di appartenenza, il desiderio di partecipazione; occorre togliere le fondamenta al consorzio sociale e comunitario. In quest’ottica si pone il così detto “inverno demografico” dell’Europa, il calo a picco delle nascite, il tentativo di colmare il vuoto demografico innescato ed oramai avanzato con l’immigrazionismo incontrollato e non regolato. «Oggi l’Europa è dominata da un materialismo privo di obiettivi che sembra incapace di motivare gli uomini e le donne a generare figli e a formare famiglie. La “cultura dello scarto” defrauda la generazione futura del suo senso di identità. In alcuni dei nostri Paesi vi sono intere zone in cui i musulmani vivono praticamente in autonomia rispetto alle leggi vigenti, quasi fossero dei colonialisti invece che dei connazionali».

Ma è questo un destino ineluttabile ed irreversibile? Secondo gli autori del documento «un’alternativa c’è». Qual è la strada che porta a concretizzare tale alternativa? Il primo imperativo è spogliare la politica europea, in gran parte fatta dalle alte burocrazie europee, della sua presunzione “teologica”, cioè dall’ambizione sfrenata a porsi in termini assoluti e universali, quasi come se fosse una religione, con i propri indiscutibili dogmi (pensiamo al “politicamente corretto”), con la pretesa di “infallibilità”. «È l’ “oppio” potente che paralizza l’Europa. Noi dobbiamo invece sottolineare che le aspirazioni religiose sono propriamente del dominio della religione, non della politica e meno ancora della burocrazia amministrativa». Perché questa operazione riesca, però, è necessario che si verifichi un presupposto: quello di una radicale riforma del linguaggio. In fondo non è un caso che i due più autorevoli autori europei di distopie, George Orwell e Aldous Huxley, abbiano fondato i regimi totalitari di quelle distopie su una profonda e consistente manipolazione del linguaggio. Di fronte all’uso del linguaggio come una sorta di «randello» ideologico dobbiamo affermarne il valore di strumento della ragione, di insopprimibile mezzo per comprendere e rappresentare la realtà e la sua complessità.

Non meno importante è una riforma della politica, intesa come “arte di governo” realizzata da «un nuovo tipo di uomini di governo». «Un uomo politico di valore difende il bene comune di un determinato popolo. Un valente uomo di governo considera la nostra eredità europea comune e le nostre specifiche tradizioni nazionali quali doni magnifici e vivificanti, ma nel contempo fragili. Quindi né li ricusa, né rischia di smarrirli per inseguire sogni utopici».

Un altro fronte sul quale si misura la controffensiva della “vera Europa” contro la “falsa Europa” è quello più propriamente culturale nel quale, secondo il Gruppo di Vanenburg, sarebbe essenziale il ruolo svolto tanto dalla famiglia quanto dalla scuola. Essi devono fornire alle future generazioni gli “anticorpi” utili a metterle nelle migliori condizioni per evitare la trappola del «culto delle competenze» che rischia di imporsi e soppiantare del tutto la «sapienza», come se le competenze tecniche potessero soppiantare del tutto le conoscenze: «L’Europa non conoscerà alcun rinnovamento senza il rifiuto deciso dell’ugualitarismo esagerato e della riduzione del sapere a conoscenza tecnica […] Ma una democrazia sana esige gerarchie sociali e culturali che incoraggino il perseguimento dell’eccellenza e che rendano onore a coloro che servono il bene comune».

Per scendere più nel concreto, per esempio quello dell’economia, gli autori del documento mettono in guardia contro quelle ideologie che assumono in maniera assolutizzante e totalizzante la logica del mercato. I mercati funzionerebbero meglio allorché essi sono inseriti in «istituzioni sociali forti» basate su principi che non rispondano pedissequamente a logiche mercantili. «La crescita economica, benché benefica, non è il bene sommo. I mercati debbono essere orientati a fini sociali. Oggi il gigantismo aziendale minaccia persino la sovranità politica. I Paesi debbono cooperare per dominare l’arroganza e l’irragionevolezza delle forze economiche globali». Oggigiorno la “falsa Europa” sta facendo giusto l’opposto. Secondo Paolo Del Debbio «l’Unione frena il mercato quando funziona e gli toglie le briglie quando serve più Stato». Insomma, come “apprendisti stregoni” gli “Eurocrati” stanno creando una terribile e nefasta miscela tra il peggio del liberismo e il peggio del dirigismo.

Il tanto criticato “populismo” è la risposta dei popoli rispetto alla loro esclusione dalle decisioni che contano, come accadde in occasione dell’approvazione della Costituzione europea che non avvenne a mezzo di referendum popolari nelle varie nazioni. Esso sfida la dittatura dello status quo, «è un segno che persino in mezzo alla nostra politica degradata e impoverita è possibile ridare vita all’agire dei popoli europei». 

La conclusione del documento elaborato da questi autorevoli intellettuali è contenuta nel punto n. 36, quello appunto conclusivo che recita testualmente: «Da europei, condividiamo anche un’eredità comune e questa eredità ci chiede di vivere assieme in pace in un’Europa delle nazioni. Ripristiniamo la sovranità nazionale e ricuperiamo la dignità di una responsabilità politica condivisa per il futuro dell’Europa».

Chi si aspettava dal documento e da questi intellettuali una o più ricette di tipo ideologico ben definite nei particolari pratici e concreti forse può dirsi deluso da queste conclusioni. Ma essi non avevano la pretesa di suggerire questo tipo di ricette, il loro è tutto sommato un appello alle avanguardie politiche, che non si rassegnano al dominio della “falsa Europa”, denso e pregno di coordinate valoriali, utili, come una sorta di “sestante ideale”, ad orientare la loro navigazione e a non smarrire la rotta nell’oceano tempestoso e turbolento della globalizzazione e della contemporaneità. In ciò, riteniamo, essi hanno fatto cosa buona e utile.

@barbadilloit

Leonardo Giordano

Leonardo Giordano su Barbadillo.it

Exit mobile version