Serie TV. “The bad guy”, oltre la mafia e la retorica. “Ma tu cu m… si’?”

In onda su Amazon Prime Video, lo sceneggiato con la regia di Giuseppe G. Stasi e Leonardo Fontana è un manuale di un indefinibile rapporto tra linguaggio e realtà. Dentro il palinsesto di una fiction di mafia l’innesto di una mescolanza di generi tra risate, citazioni, musica indovinata e un cast strepitoso. Su tutti Luigi Lo Cascio e Vincenzo Pirrotta

I ricci di mare sul tavolo di Nino Scotellaro all’apparenza non assomigliano a quei frutti di mare con le “cartilagini sanguigne, quei simulacri di organi femminili, profumati di sale e di alghe” vagheggiati dal professore La Ciura di Tomasi di Lampedusa. Eppure, provengono dallo stesso mare di Sicilia. Fin qui tutto normale. La Sicilia, senza perdersi in ammennicoli storico-culturali, è terra di contrasti: bello e brutto si contendono il campo e si mescolano, come morte ed eros, fuochi d’artificio e spari, rosari e lupare. Così a Nino Scotellaro basta soffiare via la polvere dai ricci, prendere il coltellino, scavare sulla cartilagine color del sangue, farseli scivolare dalla lingua al palato e cambiare il corso di tutte le fiction.

The bad guy” è la fiction che aspettavi da una vita, quella che manda all’aria tutta la retorica del buonismo e degli epicedi degli eroi, fatti a cadavere caldo e, per anni, a cadavere freddo senza che nessuno si ponesse il problema dell’esistenza di tutti questi cadaveri da onorare, della ragione per cui tra questi cadaveri ci siano quelli di chi i cadaveri non li voleva o che sapeva di essere destinato a diventare uno di essi. Ma “The bad guy” non ci sta a essere una fiction di mafia, sulla mafia, contro la mafia. Ditelo come vi pare.  Aspira, e ci riesce, a essere un’opera mondo sulla natura umana, sull’animalizzazione del crimine, sull’identificazione tra ignoranza e violenza, sulla natura macchiettistica del male. Il primo comico del male fu Satana per mezzo di Dante. Se metti Satana a gambe all’aria, rovesci il pianto in riso ed è fatta.

La serie tv ideata da Giuseppe G. Stasi e Giancarlo Fontana– con la sceneggiatura di Ludovica Rampoldi e Davide Serino oltre che dello stesso Stasi- può ben prestarsi a caso di studio sull’evoluzione dell’estetica del brutto e della connessa fenomenologia del linguaggio comico, dove per comico s’intende quella categoria artistica emersa nella sua individualità, e dunque in antitesi al bello, già nella poesia comico- realistica del Medioevo e ancora nella pittura visionaria di Hieronymus Bosch, le cui forme ibride celebravano la mostruosità più come simbolo che come prodigio. L’estetica del brutto troverà la sua istituzionalizzazione (ossia l’identità del bello definita attraverso l’identità del brutto) nell’omonimo volume del filosofo tedesco Karl Rosenkranz e, al tempo delle piattaforme streaming, nella serie “The Bad guy” che sintetizza tale estetica nella magistrale domanda linguistico-ontologica “Ma tu cu minchia si’?” rivolta a Balduccio Remora.

Per capire, occorre un cenno alla trama della fiction. Nino Scotellaro (un magnifico Luigi Lo Cascio) delegittimato dalla mafia e messo in galera dallo Stato perché scomodo, durante un trasferimento si salva da un disastro e per una serie di coincidenze finisce per essere curato dal boss Salvatore Tracina, cui aveva invano tentato di estorcere informazioni per la cattura del capo Mariano Suro.  Scotellaro decide di assumere l’identità del fantomatico Balduccio Remora, cugino di Tracina, venuto dal Sudamerica, e di catturare Suro. La presenza di Balduccio, la sua scalata nella famiglia Tracina e i rocamboleschi avvenimenti che ne seguono sono intercalati dalla domanda linguistico-ontologica di cui sopra, a conferma che il segreto per la mafia è un misto sardonico di ignoranza (etimologica), ebetudine (esistenziale) e automatismo (pistolero). Ossia se sai ammazzare non c’è bisogno di far sapere chi sei e se esisti davvero. Ed ecco il punto. “The bad guy” è straordinaria perchè stana dalla fogna criminale tutto ciò che la identifica: crudeltà, disumanità antropomorfa, stupidità, ottusità, brama primordiale del possesso e- perché no?- infelicità. Tutto concentrato nella figura di Salvatore Tracina interpretato da Vincenzo Pirrotta nella sua migliore prova, capace di dare alla bestialità carne, voce, nausea. E comunque, se Bosch deve essere, è Pirrotta- Tracina. Nello svelamento del risultato infelicità versus felicità (ovvero potere, controllo, denaro) il prefisso dell’antitesi si realizza nell’equazione rovesciamento etico uguale stravolgimento del linguaggio.

Tutto il linguaggio: dal vocabolario della mafia, qui mitigato nella gestualità ma esasperato nella fraseologia e nella prossemica, al linguaggio cinematografico, un vero carnevale di citazioni e metasemie. Se non fosse oltremodo ingeneroso constatare che la ridicolizzazione della mafia e del mafioso abbia già avuto le sue espressioni sia nel cinema che nella letteratura e non solo italiani, l’operazione cinematografica di Stasi e Fontana ricava per sé una nicchia di originalità grazie a un eccesso estetizzante. Laddove tale eccesso avrebbe generato un rigetto ai limiti della bulimia artistica, in “The bad guy” tale eccesso giustifica l’essere essa stessa epistemologia della comicità. La tartaruga Rossella con tanto di chip che si avvia verso il mare così lentamente da far ammosciare l’entusiasmo degli ambientalisti addiziona la presa per i fondelli del narcisismo green con la citazione di inquadrature sorrentiniane. Un altro esempio è Wowterworld, la metafora suprema di Cosa Nostra. Il parco acquatico è contemporaneamente la citazione di un topos dei film horror: pensiamo al Funpark di “Il tunnel dell’orrore” di Tom Hooper, a “Aquaslash” di Renaud Gautier o, per passare ad altro genere, a “Wonder park”, film d’animazione con cui è facile giocare d’assonanza, se non fosse che per il parco mafioso si tratta di translitterazione ignorante o trash spacciato per interiezione: provate a pronunciare water!

Comici sono Colapesce Dimartino che cantano il jingle del parco (canzone bellissima, fatene un tormentone),  ma ancora di più è comica Claudia Pandolfi, nei panni di Luvi Bray, moglie di Nino e orfana di un magistrato fatto saltare su un gommone al largo di Marzamemi (il gommone realizza l’attentato all’Addaura, ma Marzamemi perché?) : date alle attrici ottimi personaggi e loro volano. Luvi guida e canticchia “Attenti al lupo” di Lucio Dalla mentre il braccio destro di Suro (interpretato da Fabrizio Ferracane), con una freccia conficcata in mezzo al petto le fa da controcanto sul sedile posteriore. Detta così, ovviamente, non rende, ma è una delle scene più deliziose e folli di questa serie in cui la follia è la didascalia della realtà. “The bad guy” realizza l’inveramento mafiologico di Pinocchio. La bugia, il travisamento tra bene e male, lo spostamento metonimico delle parole proprio del lessico mafioso esprime un farsi altro del reale che tuttavia come altro non si percepisce né viene percepito. Se la storia, quando ci consegna la mafia, mette nel pacco pure Stato, magistratura e antimafia (nelle forme di Trattative vere o presunte, di depistaggi e insabbiamenti e i contraltari degli eroi ammazzati, di celebrazioni e carrierismo), la finzione, invece, non può fare altro che consegnarci la perdita di senso, stilizzata nel personaggio di Giusi Corifena (Guia Jelo), il magistrato affetto da Alzheimer, nell’onomastica rivelatrice dei personaggi e nelle battute di Salvatore Tracina illogicamente logiche. Il simbolismo ossessivo del film tocca il vertice in due occasioni. Il primo nella trasformazione inversa del corpo di Nino/Balduccio. Se Nino, il buono, ha un corpo respingente per la faccia gonfia, la pancia sporgente e la rinite con annessi fazzolettini sporchi, Balduccio, il cattivo, ha un fisico normale, le guance scavate ed è guarito dalla rinite (chissà se le plastiche facciali alla fine servono a questo!) e il suo corpo si fa sempre più atletico come nella scena finale. E’ inutile chiedersi perché un ruolo così sia stato affidato a Lo Cascio, l’unico attore italiano che fa del corpo un mirabile strumento narrativo senza ricorrere ad ardite architetture dei truccatori. La seconda è il crollo del Ponte di Messina. In questo caso non si tratta di ucronia né di distopia: è buon senso elevato a consapevolezza, l’augurata pietra tombale a un progetto inutile. Nel reticolato di “The bad guy” c’è pure l’omaggio alla black comedy, al noir, al giallo, al romanzo ottocentesco (come non pensare a Nino senza personaggi come Edmond Dantes o Jean Valjean), alle serie tv americane. “The bad guy” fa una rivoluzione: elimina la noia dalla serialità .

Sia chiaro: le serie tv vanno bene per una stagione, due al massimo, alla terza diventano ripetitive. Dunque, speriamo che “The bad guy” si fermi alla seconda, tanto per mettere fine alla vicenda sospesa proprio su quei ricci impolverati. Anche perché la finzione, proprio in questi giorni, pone una domanda alla realtà. Se il superlatitante Mariano Suro, sopravvissuto nella serie a un’operazione di trapianto del rene, e spuntato nella scena finale con la faccia di Antonio Catania, invece di qualificarsi chiedesse “Ma tu cu minchia si’?”, sarebbe cinema o verità?

Daniela Sessa

Daniela Sessa su Barbadillo.it

Exit mobile version