Focus. “La Lupa e il Sol Levante”: la storia dell’asse Roma-Tokyo

Tommaso De Brabant, autore del saggio per Passaggio al Bosco, racconta le relazioni politiche e diplomatiche italonipponiche nella Seconda guerra mondiale

La Lupa e il sol Levante per Passaggio al Bosco

Tommaso De Brabant, come nasce la ricerca che ha portato al volume “La Lupa e il Sol Levante”, edito da Passaggio al Bosco?

“Nell’estate del 2020 avevo già alle spalle un anno e mezzo da redattore di Destra.it, il portale culturale diretto da Marco Valle, oltre a qualche collaborazione saltuaria con altri siti; mi trovai di fronte alla vetrina d’una libreria, nella quale campeggiavano il libro con cui una soubrette spiegava il rapporto con la sua avvenenza e quello d’un tennista noto più per le volgarità che urla durante i match che non per le prestazioni sportive, e mi chiesi: perché loro possono pubblicare e io no? Quando poi, verso la fine dell’anno, uscì il libro del reduce d’un reality show diventato chissà come portavoce dell’allora Presidente del Consiglio, questa domanda diventò particolarmente angosciante. Proposi a un editore di destra un libro sul “diavolo al cinema”, del quale avevo già preparato la scaletta e scritto molte pagine, ma lo rifiutò perché “non militante”. Facendo mente locale su qualche ricorrenza importante, mi accorsi che il 7 dicembre 2021 sarebbero ricorsi ottant’anni dall’attacco giapponese alla base navale statunitense di Pearl Harbor: avevo quasi un anno per rinverdire la mia passione infantile (poi lungamente trascurata) per la storia militare, e scrivere un libro al riguardo, sfruttando l’anniversario tondo. Proposi l’idea a Marco Scatarzi, fondatore dell’editrice fiorentina Passaggio al Bosco, che si disse interessato. Scrissi una prima scaletta, intitolata “L’alba delle tigri”. Quindi ne parlai con Valle, che però mi diede un consiglio: sull’attacco di Pearl Harbor è già stato pubblicato abbastanza, un altro libro sarebbe superfluo, e finiresti per scrivere un bigino; fai qualcosa di innovativo, su di un argomento curioso e che eppure non è mai stato approfondito per intero, ossia i rapporti tra Italia e Giappone nella Seconda Guerra Mondiale. Così ai primi del febbraio 2021, sfruttando uno dei primi giorni in cui si poteva circolare, andai da lui: modificammo assieme la scaletta e, mentre parlavamo, prelevava volumi dalla sua immensa libreria. Mi ci seppellì. Per me fu l’inizio d’un incubo: scrivere un libro assieme a Marco Valle è come accettare un passaggio da Niki Lauda – sai che alla guida c’è un fuoriclasse; ma ti tremano le vene ai polsi, e ti rendi conto di quanto a tua volta sei lento. Come ho specificato nei ringraziamenti, quanto di buono e valido si può trovare in “La Lupa e il Sol Levante” va attribuito a Valle: sua è stata l’idea, invero originale, dell’argomento; sua la vastità d’orizzonti che mi ha permesso di affrontare il tema il più esaustivamente possibile; lui ha fornito la maggior parte della bibliografia. Oltre alla preparazione da storico, Marco ha una grande conoscenza del mondo, dato che viaggia moltissimo: a mia volta sono un provinciale agorafobico. Quando Valle viaggia, va in Estremo Oriente; quando viaggio io, vado a Mantova o a Ferrara, la mia visione del mondo non è così ampia. Con ciò non intendo che per me sia stato un salto nel buio: come detto, da bambino mi interessavo molto di storia militare; e non mi sono imbarcato in questo viaggio tra Roma e Salò soltanto per poter scrivere un libro, quale che ne fosse il tema – è comunque un libro molto personale, lo si nota dal fatto che sia dedicato al mio patrigno, e il frequente riferimento a Hugo Pratt – un beniamino in comune con Valle – mi è caro perché mi fa pensare a delle mostre visitate con mia madre. Il termine posto da Scatarzi era la fine dello scorso agosto: ma la mole di studi che Valle mi aveva nel frattempo propinato (assieme a frequenti rimproveri telefonici, perché periodicamente gli inviavo i capitoli in cui ogni volta rinveniva degli strafalcioni) era tale che, complice la mia lentezza, ho consegnato il testo a metà settembre. Prima di ciò, intorno a Ferragosto ho avuto un’esperienza simile a quella del romanziere protagonista di “Shining”, il romanzo di Stephen King da cui è tratto il film di Stanley Kubrick: una coppia di amici mi ha prestato la loro casa, per scrivere senza intoppi né distrazioni. Ma “Shining” è ambientato in un hotel circondato dalla neve, il mio Ferragosto da scrittore è stato in un paesino della Bassa Bergamasca nel pieno di un’ondata di caldo. “La Lupa e il Sol Levante” (che ho scritto con titolo provvisorio “L’alleanza che non c’era”: è di Scatarzi l’idea del titolo, assai migliore del mio, con cui il libro è uscito, e di Guido Cabrele la bellissima copertina) per me non è stato soltanto un debutto da autore: è stata un’esperienza lavorativa estremamente formativa, proprio perché Valle mi ha obbligato a tenere un ritmo forsennato e mi ha vietato le cadute di stile”.

Su che documenti si basa il volume?

“Siamo risaliti alle ristampe della rivista “Yamato”. Abbiamo utilizzato molte riviste specialistiche, soprattutto alcune che mi ha prestato Marco: “Storia Militare”, “Aerei”, il “Bollettino d’Archivio dell’Ufficio Storico della Marina Militare”. Come già detto, Marco mi ha dato moltissimi libri: gli studi di Eugenio De Rienzo e di Renzo De Felice, i ricordi di Piero Buscaroli; persino un manuale universitario con cui Marco preparò un esame sulla storia dell’Asia. Ci sono due libri che Valle stesso ha scritto: “Confini e Conflitti” e (riguardo, nel particolare, l’epopea della corvetta Magenta, che lui ha poi trattato nella prefazione) “Suez”. Poi, i verbali delle udienze di Mussolini nel periodo di Salò, e gli studi di Vagnini sugli italiani che si avventurarono nel Mancikuò. Ho attinto, devo ammettere, a quella ricca risorsa che internet può essere: dal sito dell’ISMEO (l’Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente, fondato da Giuseppe Tucci) al sito istituzionale del memoriale di Pearl Harbor, sino a quelli dell’Associazione Nazionale Marinai d’Italia e del Museo Regionale di Scienze Naturali di Torino”.

In tempi di nuovi imperialismi, come era definibile quello nipponico? Cosa ne resta dopo la Seconda Guerra Mondiale?

“Negli ultimi anni dell’Ottocento, quando il Giappone aggredì la Cina togliendole il controllo della Corea e annettendo la Manciuria e l’attuale Taiwan, e i primi del Novecento, quando si difese dalla Russia (rifilandole per contro una severa batosta), l’Impero del Sol Levante sembrò imporsi sullo scenario internazionale: proprio la guerra contro la Cina del 1894-’95 (la prima guerra sino-giapponese; la seconda avrà ben altra durata e ben altro esito) ne aveva ingigantito i possedimenti. Ma era una colossale illusione: l’espansionismo giapponese aveva portato a un circolo vizioso, ogni campagna aumentava le spese militari, per coprire le quali si intraprendeva un’altra campagna espansionistica che portava però altre spese militari… a sostenere questa fatica di Sisifo non bastavano le scarse risorse naturali che i nipponici traevano dai loro territori, anzi: proprio questa lacuna sarà fatale nella Seconda Guerra Mondiale. Innanzitutto, perché Roosevelt puntò (dal “discorso della quarantena”, col quale nel 1937 predicò la necessità di isolare i paesi che poi faranno parte dell’Asse, sino alla fine del 1941, quando lui e il segretario di stato Hull manderanno in stallo le trattative con i diplomatici giapponesi Nomura e Kurusu, dopo aver rifiutato d’incontrare il principe Konoe) sul disperato bisogno giapponese di risorse, quando mise al bando l’Impero del Sol Levante precludendogli l’accesso alle materie prime e obbligandolo così a ingaggiare il combattimento; poi, a guerra scatenata, perché il Giappone si trovò a combattere senza risorse un conflitto in cui si era impegnato proprio non trovarsi del tutto deprivato di esse.

Un manifesto dell’asse Roma Tokyo Berlino

L’imperialismo giapponese era insomma quel che si suole definire “un gigante dai piedi d’argilla”: un tentativo, in tragico ritardo, di raggiungere gli imperi occidentali nella corsa alla supremazia su scala mondiale. L’enorme e rapida (oltre che estemporanea) espansione territoriale nei primi decenni del Novecento non basta a nascondere le debolezze dell’imperialismo giapponese: scarsità di risorse, gravi difficoltà economiche che portavano a una continua conflittualità interna (le campagne espansionistiche avevano anche lo scopo di distrarre la popolazione dai problemi finanziari, attribuendoli a una congiura antinipponica delle nazioni occidentali) e un ritardo nell’adeguarsi ai sistemi economici dominanti in Occidente: era appena cominciata l’era degli “zaibatsu”, i colossi industriali e finanziari che avrebbero dominato l’economia mondiale nel secondo dopoguerra (ma delle zaibatsu prebelliche è sopravvissuta soltanto la Mitsubishi, produttrice tra l’altro del celeberrimo aereo da caccia A6M detto “Zero”). Il Giappone delle ere Meiji (1868-1912) e Taisho (1912-1926) era scisso tra un arrogante sciovinismo (il razzismo nei confronti delle altre popolazioni asiatiche era acceso quanto quello verso i “bianchi”) e l’imitazione (dettata dalla consapevolezza dei propri svantaggi) degli imperialismi occidentali: lo scontro tra l’arrembante impero giapponese e quello, agonizzante, russo tra il febbraio 1904 e il settembre 1905, terminato con il massacro d’una flotta di corazzate zariste nell’arcipelago di Tsushima, fu pilotato da Gran Bretagna e Francia, due imperi coloniali ancora dominanti sulla scena mondiale, che vedevano rispettivamente nel Giappone e nella Russia due imperi “succursali”, due potenze poco temibili e utilizzabili per le proprie politiche di potere a livello internazionale. Per di più, il trattato di pace (con il quale la Russia rifiutò di riconoscersi sconfitta, nonostante l’evidenza dei fatti) fu siglato su territorio statunitense, e sotto l’arbitrato del presidente Theodore Roosevelt, che assieme agli altri imperi occidentali limitò le conseguenze del trionfo giapponese. La vittoria nipponica nella guerra contro la Russia zarista (contro i sovietici invece il Giappone perderà le schermaglie al confine tra Manciuria e Mongolia, protrattesi dal 1932 al 1945 e culminate negli scontri del Khalkin Gol) segnò il destino dell’impero giapponese: perché proprio gli Stati Uniti d’America, già decisi a diventare la maggior potenza militare planetaria e a rivestirsi del ruolo di “poliziotti del mondo”, stavano a loro volta accrescendo il loro controllo dell’Oceano Pacifico, e videro così nel Giappone un rivale per il dominio del più grande mare del globo.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, la nazione giapponese tornò a coincidere con l’arcipelago nipponico. La dinastia imperiale restò in carica, ma fu abbandonata qualsiasi velleità aggressiva nei confronti delle nazioni confinanti. Dopo la reggenza del generale Douglas MacArthur (riverito dai giapponesi sconfitti, che lo soprannominarono “Gaijin Shogun”, “comandante straniero”) e di Matthew Ridgway, fra il 1945 e il 1952, il Giappone si riebbe comunque piuttosto rapidamente, diventando una delle maggiori potenze economiche mondiali. Ora è messo in ombra dalla incontrastata supremazia della Cina, ma tra gli anni ’70 e ’90 il portentoso sviluppo tecnologico e la grande forza delle sue industrie hanno fatto conquistare al Giappone il primato in molti campi, tanto da suscitare una rinnovata ostilità da parte americana: tanto che vi fu un florilegio di studi, redatti da economisti, politologi, sociologi, che mettevano in guardia dalla “minaccia dello yen”. Un’ostilità che Clint Eastwood ha raffigurato intelligentemente in uno dei suoi film migliori, “Gran Torino”, dove interpreta Walt, un ex operaio della Ford (ostile nei confronti dei “gialli” perché traumatizzato dalla Guerra di Corea) che osserva con disapprovazione il figlio far salire la famiglia su di una automobile asiatica. Il cinema ha illustrato bene questa reciproca diffidenza, perdurante dopo la fine del conflitto: si pensi al bellissimo “Yakuza” di Sidney Pollack, con Robert Mitchum che torna in Giappone per aiutare un amico e si trova a fare i conti con una trama di debiti d’onore; e a “Black Rain – Pioggia sporca” di Ridley Scott, con due poliziotti di New York scaraventati in una Osaka spaventosa come la Los Angeles di “Blade Runner”. Il Giappone di oggi è una società florida e disciplinata, ma dietro l’apparenza di ricchezza e ordine si nasconde tantissimo malessere, che si manifesta in una cultura pop con elementi terrificanti: dalla tv spazzatura (quella nostrana, con i suoi abissi, al confronto è elegante) alla violenza parossistica d’alcuni film “anime”, dalla pornografia dominata da tratti patologici dei fumetti “hentai” al tragico fenomeno degli “hikikomori”, ragazzi che si rinchiudono nella cameretta e rifiutano ogni contatto con la realtà esterna. Un mondo che ha meraviglie come i cartoni animati dell’eccelso Hayao Miyazaki e la serenità dei libri sui gatti, ma anche tante zone d’ombra”.

Tommaso De Brabant

La sintonia al tempo dell’asse tra Italia e Giappone come fu declinata?

“La sintonia tra Italia e Giappone fu perseguita ostinatamente, soprattutto da parte italiana: ma non fu realmente conseguita. Gli italiani non avevano verso i giapponesi il pregiudizio razzista che a costoro era rivolto dai tedeschi (informato, nel febbraio 1942, del capolavoro di Tomoyuki Yamashita – un validissimo generale giapponese, pretestuosamente giustiziato dagli americani a fine conflitto, che con forze nettamente inferiori strappò Singapore agli angloamericani dopo un assedio di appena una settimana – Hitler si rammaricò che Singapore fosse stata strappata ai britannici, secondo lui fratelli dei tedeschi per questioni razziali, e a quell’altezza del conflitto ancora possibili interlocutori, da un esercito asiatico); per contro, i giapponesi erano diffidenti nei confronti degli occidentali – tedeschi e italiani compresi. Se ai tedeschi perlomeno il Giappone riconosceva un qualche rispetto per la disciplina e la potenza guerresca, questo riguardo era precluso agli italiani. In queste dinamiche, i giapponesi osservavano con fermezza tutti i luoghi comuni che circolano tuttora, sui tedeschi rigidi e attenti, e sugli italiani chiassosi e maneggioni: il resoconto del capitano Mitsunobu, giunto a Roma e scandalizzato dal traffico caotico, è eloquente al riguardo di quanto si ragionasse per stereotipi. Il momento più significativo del disdegno giapponese per l’alleato italico fu forse la pessima accoglienza riservata ai trasvolatori Roma-Tokyo, giunti nella capitale del Sol Levante il 3 luglio 1942: nonostante nel frattempo proseguissero le scaramucce lungo la frontiera mongola, il Giappone teneva a non innescare un conflitto ad alta intensità con l’Unione Sovietica (ancora neutrale nel conflitto mondiale): gli angloamericani sul fronte del Pacifico erano già un nemico troppo impegnativo; che il velivolo del comandante Moscatelli, recante le insegne d’un alleato del Giappone, sorvolasse territori sovietici (l’aereo italiano fece scalo nell’attuale Ucraina) fu considerato un azzardo. Gli aviatori italiani atterrarono a Tokyo aspettandosi lanci di fiori, scambi di doni… e furono rimandati indietro senza tante cerimonie, anzi piuttosto scortesemente.

Dopo la resa italiana a Cassibile, i giapponesi videro negli italiani dei nemici: i fedelissimi del Duce erano per loro soltanto “meno peggio” di chi aveva preferito passare dalla parte degli Alleati. A tal riguardo, è molto affascinante la vicenda d’un grandissimo personaggio, Fosco Maraini, che insegnava italiano all’università di Kyoto: internato con la famiglia per non aver aderito alla RSI, si conquistò il rispetto dei responsabili del campo di prigionia eseguendo lo yubitsume, la penitenza degli yakuza: si mozzò il mignolo sinistro. I giapponesi videro nel professore italiano un degno osservante del loro codice d’onore, un uomo dotato del carattere d’un samurai”.

Il mensile Yamato

Che ruolo svolge la rivista Yamato? Chi ci scriveva?

“Yamato era uno strumento, molto raffinato e piuttosto potente, di propaganda: il suo scopo ultimo era dimostrare l’affinità di pensiero tra imperialismo giapponese e fascismo italiano, tra il codice cavalleresco del Bushido e l’ideologia del PNF, a costo di ricorrere a qualche forzatura (a ben vedere, raramente necessaria).

Su indicazione del Duce, nel 1926 fu fondata la “Società Amici del Giappone”, presieduta dal diplomatico Raniero Paulucci di Calboli (scelto da Mussolini stesso). Dal gennaio 1941, la Società ebbe un organo ufficiale: per l’appunto “Yamato”, pubblicata dall’Istituto Geografico De Agostini. Direttore responsabile era Pietro Silvio Rivetta di Solonghello e la redazione annoverava Giacinto Auriti e Giuseppe Tucci; collaborarono Carlo Formichi e Carlo Avarna di Gualtieri (rispettivamente presidente e segretario della Società degli Amici del Giappone), Pompeo Aloisi, Ottaviano Armando Koch e i giapponesi Toyo Mitsunobu (a capo della legazione navale nipponica) e Moriakira Shimizu. Il mensile terminò le pubblicazioni alla fine dell’estate del 1943, tra la caduta del regime e la resa del Regno d’Italia”.

Che testimonianza raccolse sull’asse Roma-Tokyo Piero Buscaroli?

“Nel 1966 (di ritorno dal Vietnam, dove l’anno prima aveva visto cominciare l’intervento diretto degli statunitensi nella guerra fra Nord e Sud), nel pieno della sua pluriennale disputa con Dino Grandi, Buscaroli si recò in Giappone: Filippo Anfuso (spirato nel frattempo) tre anni prima gli aveva consigliato di presentarsi a Shinrokuro Hidaka, ambasciatore giapponese in Italia durante la guerra. Buscaroli cominciò il suo reportage con quelle premesse che quattro anni dopo portarono Yukio Mishima a suicidarsi dopo aver sequestrato un palazzo ministeriale: il Giappone è ormai un fantoccio occidentalizzato, non ha più spirito, e ha punito i superstiti dell’Impero sconfitto emarginandoli; ma il suo scopo, perseguito un po’ fanaticamente, era ricostruire i retroscena della “Notte del Gran Consiglio”, quella che vide protagonista proprio l’oggetto del suo astio, Dino Grandi. Prima di Hidaka, Buscaroli incontrò un altro componente di rango della missione giapponese nell’Italia fascista, il generale Moriakira Shimizu, ma l’incontro non fu cordiale; l’anziano militare, malinconicamente relegato in un ufficio, vedeva nel colloquio l’occasione per inoltrarsi tra i ricordi assieme a un giovane giornalista, ma il suo visitatore lo incalzava alla ricerca della “verità” sulla congiura che avrebbe portato alla caduta di Mussolini. Molta più sintonia vi fu tra Buscaroli e Hidaka, come promesso da Anfuso prodigo di dettagli sulla notte del 24-25 luglio 1943: il barone Hidaka fu contento di raccontare all’inviato italiano l’intrigo che Buscaroli stesso sospettava aver portato alla fine del Ventennio fascista”.

Quali attività caratterizzarono l’ambasciata della RSI a Tokyo?

“L’ambasciata dei mussoliniani si scontrò con la diffidenza dei nipponici. A Salò, il Duce incontrava frequentemente la legazione navale giapponese: si buscò persino una reprimenda durissima dal capitano Mitsunobu (che sarà ucciso in Toscana dai partigiani, in un’imboscata), il quale non ebbe alcuna remora nel leggergli un memoir con il quale i militari del Sol Levante attribuivano agli italiani la deriva sfavorevole che la guerra aveva ormai assunto per il Patto d’Acciaio. Dal canto loro i giapponesi, intransigenti seguaci del codice cavalleresco del “bushido”, dopo l’armistizio di Cassibile vedevano soltanto dei vili che accettavano di sopravvivere alla sconfitta, e dei traditori: quelli tra loro che con la resa si erano consegnati agli Alleati, avevano tradito tedeschi e giapponesi; coloro invece che avevano scelto di seguire il Duce sino alla fine, tradivano il loro re. Un paradosso che ne evidenzia la mentalità rigida”.

La storia del marinaio pugliese Sanzio: un eroe nippo-italiano?

“Raffaello Sanzio (che dopo la guerra si stabilirà a Yokohama, dove sposerà una donna dalla quale mutuerà il cognome, diventando Raffaello Kobayashi), oltre che omonimo di uno dei più grandi artisti che abbia mai onorato l’umanità è stato un personaggio curioso, degno d’una delle avventure narrate da Hugo Pratt. Una delle frasi più celebri di Corto Maltese: “Forse sono l’ultimo rappresentante d’una dinastia ormai estinta, che credeva nell’eroismo”, avrebbe potuto essere pronunciata anche da questo sommergibilista barese, uno dei pochissimi militari europei dell’Asse impegnati sul fronte dell’Oceano Pacifico. La sua vicenda si è purtroppo conclusa con dei battibecchi un po’ chiassosi con i diplomatici italiani in Giappone – dovettero farsi avanti Arrigo Petacco e Gianfranco Fini per placarlo – ma la sua furia è ben comprensibile: rimasto, alla fine del conflitto, in Giappone, fu imprigionato dagli statunitensi, che rinfacciarono a lui e ai suoi ultimi commilitoni di aver tradito la monarchia italiana; come se tale insulto non bastasse, la Marina della neonata Repubblica Italiana li radiò dai ranghi e li privò della pensione. Il nostro sommergibilista era tra coloro i quali, giunta a Singapore la notizia della resa di Cassibile nel settembre 1943, tra il re e il Duce preferirono riconoscere la loro fedeltà alla nuova Repubblica Sociale di Mussolini… la vicenda di quei marinai non è giudicabile da chi non abbia vissuto il loro dilemma, trovandosi in balia di tedeschi e giapponesi dovettero scegliere se restare fedeli alla monarchia (come gli ufficiali fecero), quindi inimicarsi gli ex alleati (che infatti li destinarono a un inferno ben peggiore di quel che si vede in “Il ponte sul fiume Kwai”), oppure mantenersi leali all’alleanza e continuare a combattere una guerra ormai perduta. Gli uni come gli altri si trovarono a dover scegliere tra due sorti terribili: non è giusto qualificare come “badogliani” gli ufficiali, né come “traditori” i lealisti del Patto d’Acciaio. Raffaello Sanzio Kobayashi è rimasto per tutta la vita fedele a un giuramento: ripensando alla sua vicenda oggi, nell’epoca in cui film e telefilm americani (e non solo, purtroppo) predicano il cinismo e l’opportunismo come ideali di vita, la sua condotta è ancor più esemplare”.

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Gerardo Adami

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