L’assunto per il quale il calcio costituisce un veicolo di straordinaria importanza per le rivendicazioni identitarie trova evidente conferma nella parabola della tifoseria scozzese che fin dagli albori si è vista (ed è stata vista dall’esterno) come una sorta di ambasciatrice sui generis di una Scottishness intesa come tradizione culturale distinta rispetto a quella Britannica. In effetti la possibilità di competere ai massimi livelli internazionali ha rappresentato una ghiotta opportunità per rendere palese agli occhi del resto d’Europa un dato scontato per chi quotidianamente sventola fiero il Saltire, ovvero l’esistenza della Scozia come soggetto autonomo e non come semplice subordinata componente di un Regno Unito a evidente trazione inglese. Nel corso di quasi settant’anni di costante e chiassosa presenza al seguito della propria squadra, infatti, quella che è ormai universalmente nota come tartan army ha assai spesso concentrato la propria attenzione su questa volontà di preservare e rinvigorire l’autocoscienza del proprio popolo attraverso una continua riproposizione dei caratteri folklorici che lo contraddistinguono, primo fra tutti l’uso massiccio del tartan (ma non del kilt che verrà adottato dai tifosi solo in una fase successiva). La stessa attitudine bonaria, goliardica e pacifica che è diventata una sorta di marchio di fabbrica di questi footsoldiers nasce inizialmente come tentativo di marcare una differenza sostanziale rispetto ai cugini Inglesi che a partire dai primissimi anni Ottanta si caratterizzavano per tutt’altro approccio nel corso delle trasferte sul Continente. Un modo semplice e immediato per chiarire di essere “Scots, not Brits”. È innegabile, del resto, che sia proprio questa dimensione fieramente patriottica a costituire il prisma attraverso il quale la tartan army stessa viene interpretata dagli appassionati del nostro Paese.
Ma, come per ogni fenomeno nato dentro e attorno agli stadi (che, giova ricordarlo una volta di più, rimangono in primis brodo di coltura per forme anomiche di aggregazione e fermento (sotto)culturale), sarebbe errato e fuorviante ricondurne l’importanza semplicemente a questo ambito pre-politico. Ad una analisi più attenta, infatti, il seguito della Nazionale scozzese si rivela come un insieme ricco di sfaccettature a volte in evidente contrasto tra loro. Dai pellegrinaggi londinesi dell’immediato dopoguerra passando per le scomposte trasferte degli anni Settanta fino ai premi per il fair play del più recente passato, la tifoseria ha via via cambiato il proprio modo di porsi nei confronti del mondo esterno rappresentando uno specchio reale di una società in costante mutamento e mai facilmente rinchiudibile entro gli angusti steccati di un romanticismo non di rado svincolato dalla realtà. Le risse furibonde attorno a Wembley, in sostanza, fanno parte dell’album di famiglia tanto quanto le lodi sperticate per la sportività ai vari Mondiali ed entrambe le cose ci raccontano meglio di qualunque altra l’anima più profonda di questo stupendo Paese.
Di tutto questo parla Il ruggito di Hampden, volume che descrive minuziosamente le varie tappe di un percorso che, partito con i primi pionieri negli anni Quaranta, si è definitivamente imposto all’attenzione dell’opinione pubblica mezzo secolo dopo rimanendo sempre un elemento centrale negli equilibri del calcio (e della società) oltre il Vallo di Adriano.
* Il Ruggito di Hampden, edito da Eclettica, di Mauro Bonvicini, euro 20. Acquistabile qui
L’unico vero identitatismo da quelle parti conduce sempre a whisky e birra consumati in dosi pantagrueliche….