Il futuro dell’Africa? Passa dal ripensare un intero continente

La recensione del saggio di Marco Valle "Il futuro dell’Africa è in Africa. I tanti volti di un Continente sorprendente, che l’Italia ha dimenticato" (edito da Il Giornale)

Il continente africano

Il saggio di Marco Valle

Il 14 aprile, in allegato con Il Giornale, nelle edicole è comparso un libricino nero, opera di Marco Valle, giornalista (blogger per il Giornale, direttore di Destra.it) e storico, autore dei libri Confini e conflitti. Uomini, imperi e sovranità nazionali (Eclettica, 2014), Suez. Il Canale, l’Egitto e l’Italia; da Venezia a Cavour, da Mussolini a Mattei (Historica, 2018) e, per la collana “Fuori dal coro” (la stessa del pamphlet in questione) Le Pen, la donna che spaventa l’Europa (2017).

Viaggiatore instancabile (e nostalgico della libertà pre-Covid), il triestino Valle è costantemente mosso da due avversioni: quella per i “pensieri corti” e quella per le banalizzazioni («semplificare è travisare»).

Già nell’introduzione, l’Autore mette in guardia dai dogmi del terzomondismo (e dell’immigrazionismo), come fa Federico Rampini, giornalista di sinistra e alieno da certo instupidimento globalista e conformista, citato nella prima pagina del pamphlet: «ogni sofferenza dell’umanità contemporanea si deve ricondurre alle colpe dell’Occidente, dell’uomo bianco…  solo espiare le nostre colpe può appagare una sinistra che non apre mai i libri di storia».

Non si deve però scadere nelle banalizzazioni di segno opposto, oppure in passatismi («una vulgata opposta e altrettanto errata quanto perdente») e semplificazioni dell’attualità («immaginando popoli perduti, trame criminali e confini blindati»), atteggiamenti accomunati dal rifiuto e dall’incapacità di guardare al futuro: i “pensieri corti” deplorati dall’Autore.

Come notano Valle e Rampini, il pensiero unico e l’imperante vizio della semplificazione hanno imposto l’idea per la quale la stagione colonialista sia la causa di tutti i mali del Terzo Mondo; idea alla quale cui si aggiunge la convinzione che tale periodo (di fatto, una breve parentesi che, pur tragica, da sola non spiega le condizioni dell’Africa) vada espiato, e non affrontato (magari addirittura risolto).

Questa “filantropia pelosa” ha ogni convenienza nel far ritenere valido uno “schema irenico” fallimentare e dannoso, con conseguenze distruttive per tutti i continenti coinvolti. Per l’Europa, travolta da un’immigrazione dai numeri insostenibili; per l’Africa, dissanguata da un’emigrazione che la priva delle sue risorse umane. Le vittime sono da entrambe le parti: gli africani si trovano prima sulle carrette del mare, poi in nazioni per loro nuove dove devono scegliere se accettare lavori quasi gratuiti o, per disperazione, delinquere; gli europei subiscono il crollo del prezzo del lavoro e lo spropositato aumento del tasso di criminalità.

Ci guadagna chi diffonde la succitata caricatura di filantropia: chi sfrutta la manodopera sottopagata, e i trafficanti di esseri umani, che oltre a lucrare sul flusso migratorio si permettono il lusso di passare per benefattori, col plauso di pochi privilegiati e di tanti utili idioti: i primi fanno credere che il solo modo di salvare gli africani sia imbarcarli e sfruttarli, i secondi credono alla messinscena.

Se chi, da questa parte del Mediterraneo, prova a far chiarezza su questa atrocità di portata intercontinentale è tacciato di egoismo e crudeltà, qualcuno dall’altra sponda prova ad arginare questo disastro. Valle cita politici – il presidente del Ghana, Nana Akufo-Addo e quello del Ruanda, Paul Kagame – che intraprendono politiche per far restare i giovani in patria, e persino cantanti – Nahawa Doumbia nel Mali, e la Star Feminine Band nel Benin – che esortano i loro ascoltatori e non cadere nella trappola dell’emigrazione e nelle promesse con le quali i trafficanti di esseri umani (le ONG che qualcuno, a volte per malizia altre per dabbenaggine, chiama “salvatori di vite umane”) lucrano sulle loro speranze.

Il capitolo più lungo è il secondo: “African Renaissance e dragoni cinesi”. Il suo soggetto domina la scena africana, come fa con quella mondiale.

Programmi di sviluppo economico (“Forum on China-Africa cooperation”), collegamenti economici permanenti (“China-Africa Economic and Trade Expo”) rette da investimenti enormi, gigantesche tratte ferroviarie (“China Road and Bridge Cooperation”) e tanto “soft power” (due network: CCTV News Channel e China Daily, e un’enorme organizzazione culturale: l’Istituto Confucio): l’impegno della Cina per fare dell’intero continente africano, nell’interesse d’entrambe le parti coinvolte, un suo satellite, è tanto colossale quanto fruttuoso: all’egemonia cinese sul continente nero sembra resistere soltanto la Francia.

Tra gli interventi internazionali in Africa che Valle esamina, uno spazio a parte è dedicato ai paesi europei, e ai loro premier.

Il francese Emmanuel Macron (e la questione del franco africano, «oggetto in Italia d’una polemica tanto provinciale quanto superficiale»), il britannico Boris Johnson e il russo Vladimir Putin, assieme alle rispettive azioni sul continente nero, sono presentati in pochi paragrafi, ma con tanti dettagli: andando ben oltre i luoghi comuni (blaterati dai detrattori come dagli ammiratori) che aleggiano intorno ai personaggi, e riflettendo seriamente sui loro interventi: la geopolitica è cosa troppo seria e complessa per essere lasciata a chi non va al di là delle caricature sull’arroganza di Macron, i modi cafoni di Johnson buzzurro e la durezza di Putin prepotente.

Gli stravolgimenti climatici interessano tutto il mondo. L’Africa è uno dei continenti che peggio li paventano, dato l’incombere della desertificazione. Ma è anche il continente che sta reagendo meglio all’emergenza: con una serietà e una concretezza completamente ignote alla parte d’Occidente che si fa abbindolare da operazioni di facciata come la pantomima della povera Greta Thunberg. Seguendo l’esempio del biologo e botanico inglese Richard St. Barbe Baker e al suo progetto, risalente al 1952, d’una cintura verde, un’agenzia panafricana sta costruendo “The Great Green Wall”.

Va ammesso: come gli altri problemi dell’Africa, la desertificazione offre scenari di terrore. E come le altre soluzioni, la “Grande Muraille” non dà certezze di salvezza. Ma i problemi non si affrontano (e tantomeno si risolvono) con colpevolizzazioni sgangherate, o predicando sciagure ineluttabili. Senza gettarsi in un ottimismo facilone, l’Africa si aiuta non facendone una vittima e agevolandone la disperazione, ma valorizzandone le risorse; soprattutto quelle umane – che non le mancano. Il futuro dell’Africa è, come dice il titolo stesso del libro di Valle, in Africa: sono gli africani. Che non vanno compatiti, non vanno trattati con un paternalismo assai peggiore di quello colonialista, non vanno strappati dalle loro terre per nutrire le tasche, la vanagloria e le bugie di chi spaccia lo spopolamento indotto dell’Africa per legittima migrazione, lo sfruttamento delle altrui speranze per filantropia.

Il libro di Valle è una piccola pietra angolare per gettare le basi di un futuro più sano, più serio, più libero, su entrambe le sponde del Mediterraneo. Una voce da ascoltare, tanto più in un’Italia sempre più estranea al “grande gioco” internazionale: se il ministero degli Esteri ha perso il treno delle celebrazioni per Suez, è auspicabile che non si continui a far trascorrere gli appuntamenti (e i problemi) africani con rassegnazione e banalizzazioni. 

*Il futuro dell’Africa è in Africa. I tanti volti di un Continente sorprendente, che l’Italia ha dimenticato, di Marco Valle,(Il Giornale, collana “Fuori dal coro”, 64 pagine, 3,50 euro)

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Tommaso de Brabant

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