SuperMario\16. Perché è il momento di distinguersi dall’assembramento pro Draghi

L'intellettuale meridiano Petronio Di Leo argomenta la tesi contro ogni ipotesi di governissimo, criticando nel merito la strategia salviniana

Mario Draghi al Quirinale

Draghi accolto da Mattarella al Quirinale

Dalle maggioranze risicate agli assembramenti da far invidia al pre-Covid. Sul carro di Mario Draghi sono saltati tutti e senza mascherina (né vergogna): ci sono i progressisti, i moderati, gli ecologisti,  i populisti, i sovranisti. Ma anche i sindacati, Confindustria, i mercati, l’Europa, la Cei, gli intellettuali. La parola d’ordine è “entrare, entrare, entrare”. Star dentro per “condizionare” in omaggio alla politica vera che è arte di mediazione e complessità, non certo una semplificazione da bar sport. Le idee sono vecchi tomi dimenticati a casa dei genitori, la visione del mondo è un pezzo vintage da tenere in salotto per menarsela da intenditori quando arrivano i commensali. Quindi turatevi il naso e sbrigatevi, cercate un posto sul carro, sì, proprio lì in fondo, tra l’investitore incravattato, il vescovo progressista e quel signore che dovrebbe essere Calenda o forse Giorgetti, magari Fornaro di Leu, ma da qui non si capisce, c’è troppa gente, e d’altronde che importanza ha?

Ma facciamoci seri. E per carità di patria, oltre a essere seri, tralasceremo tutti i precedenti del “governismo” di destra e la totale inutilità storica e politica dell’occupazione di scranni e ministeri da cui l’Italia non ha ereditato, non un riforma, per carità, sarebbe troppo, ma nemmeno una trasmissione televisiva degna di essere vista. Non casualmente, non c’è uno fra gli entristi dell’ultima ora che citi – documentandola – la bontà di una operazione di questo genere. Non tralasceremo, invece, l’esperienza di Mario Monti e del suo governo di salvezza, anche allora “esecutivo dei migliori”, di quelli preparati che sapevano il fatto loro, come la Fornero. Sappiamo tutti come è andata: Berlusconi c’è stato, firmando e sottoscrivendo tutte le atrocità di quei mesi, a cominciare dall’Imu, per poi staccare la spina fingendo di non aver mai toccato palla. Un capolavoro che gli riuscì solo in virtù della scarsa memoria degli italiani. Probabilmente Salvini farà la stessa cosa: è entrato sperando di contar qualcosa e per accontentare i desiderata dei Giorgetti e degli Zaia, uomini di potere e del potere che col sovranismo non c’entrano nulla (e di cui sono imperitura sciagura). Il Nostro resisterà per qualche tempo. Poi, all’ennesimo barcone approdato a Lampedusa, all’ennesima patrimoniale, all’ennesimo inchino a Bruxelles si sfilerà, dicendo: “Ci ho provato perché sono responsabile ma è stato inutile”. La differenza con Berlusconi è che quest’ultimo, andandosene, fece cadere il governo Monti, mentre il leghista non farà cadere proprio nulla. E l’unico effetto di tutta la baracconata sarà stato solo quello di perdere ogni credibilità oltre che di aver bruciato per sempre i Borghi e i Bagnai arruolati alla nuova causa europeista. Sarà una pena.

L’occasione perduta

La verità è che il governo Draghi offriva un’occasione imperdibile. Cioè quella di riorganizzare la politica italiana – ormai persa in un nonsense assoluto – lungo una dorsale autentica: da una parte tutte le forze europeiste (a queste latitudini sinonimo di mondialiste), dall’altra tutte quelle sovraniste.  La maggioranza Ursula è l’unica (e benedetta) novità politica dell’ultimo ventennio capace di mettere ordine dove l’ordine non c’è. Leu, Pd, l’ala progressista del M5S, i cespugli europeisti e Forza Italia, da un lato. Lega, FdI, Italexit, l’ala barricadiera del M5S dall’altro.  Ognuno sarebbe stato a casa propria. I sovranisti avrebbero potuto organizzare un percorso comune, strutturare un governo ombra e prepararsi alla sfida elettorale del 2023 ben attrezzati. Il barcone in arrivo, la patrimoniale, gli inchini a Bruxelles non sarebbero stati più motivo per febbri notturne e svenimenti diurni ma pistole fumanti per indebolire un governo che ci metterà poco ad inciampare. E invece per un mezzo ministero e qualche sottosegretariato di cui si perderà immediatamente memoria tutto è andato in vacca e nulla sarà più credibile. Né i libri di Bagnai, né le invettive di Borghi, né le tirate anti-europee di Salvini quando l’aria cambierà e riecheggerà l’indietro tutta. D’altra parte, non c’è da illudersi: nessuno imparerà la lezione. Perché tra cinque o dieci anni, quando si riproporrà il problema e si tratterà di decidere se entrare o meno nel governo tecnico 3.0 di Gualtieri piuttosto che di Panetta, di Visco o di Cottarelli, la tarantella ricomincerà: dobbiamo entrare, ma badate, non sarà come con Monti. Non sarà come con Draghi. Sarà diverso. E’ sempre diverso nella testa e nelle speranze dei governisti. Purtroppo nella realtà non lo è mai.

Ps. A chi dice che questa volta sarà differente perché c’è il Recovery su cui mettere le mani, bisognerebbe spiegare cos’è il Recovery.  Ci proviamo per chi ha ancora pazienza di leggere. Funziona così: l’Ue prende dai mercati dei soldi, li presta ai Paesi membri, i quali dovranno ridarli all’Europa che, a sua volta, li restituirà ai mercati. Per recuperare quanto preso, Bruxelles farà leva sui contributi dei singoli Paesi all’Unione nonché sulla loro base imponibile. Cioè tasse a vocazione continentale, come quella sulla plastica. Siamo noi che stiamo finanziando l’intera operazione tranne che per quei  soldi che piovono dal cielo a titolo gratuito. Ma sono pochi. Cinquanta miliardi dice l’economista liberista Nicola Rossi. Quaranta puntualizza l’ex ministro Giulio Tremonti. “Io avrei detto meno” lo corregge in diretta – ridendosela – Carlo Cottarelli in predicato di incassare qualche dicastero. Alla fine saranno 20 e cioè non sarà nulla. Si dirà che pur a prestito sono comunque tanti denari. Peccato che siano spalmati in sei anni e 209/6 – calcolatrice alla mano – fa 34 e rotti. In meno di un anno di pandemia il governo italiano ha messo sul tavolo 140 miliardi che sono serviti a stento a non far morire il Paese di fame. E quindi se 140 in un anno scarso hanno inciso in maniera relativa perché 34 dovrebbero ribaltare le sorti del Paese? Niun lo sa. C’è poi un altro dato: con quei soldi Bruxelles esige investimenti su tutte le stupidaggini conformiste che il pensiero unico ha partorito in questi anni a cominciare da rivoluzione verde, parità di genere, innovazione. Non a caso i soldi per le spese utili (infrastrutture) sono co-finanziamenti o meri ricalchi di voci già in bilancio. La “ciccia” è altrove e dunque preparatevi. Pioveranno soldi su fallimentari start up green, pink, tech, cool, smart come se in Italia ci fossero sessanta milioni di Steve Jobs ed Elon Musk chiusi in garage ad aspettare il messia-Recovey per lanciare il loro miracolo digitale. Sfortunatamente qui crollano i tetti delle scuole, registriamo il minimo europeo per laureati, ci sono torme di 50enni senza lavoro e senza qualifica per i quali serve immaginare un destino che non sarà certo nella Silicon Valley. Insomma, bisognerebbe finanziare l’essenziale. Ma l’Europa è maestra solo nell’incentivare il superfluo. Da sempre. Con i soldi europei non si ripara mai la palestra del liceo ma si imbastisce sempre un interessantissimo Pon sull’ imperdibile epopea femminista della poetessa tal dei tali (o tala delle tale) che scrisse quattro versi in croce mentre il marito fingeva di combattere da partigiano. Questo, ahinoi, è il Recovery senza considerare le riforme lacrime e sangue che ci toccherà fare per accedere alla sola. Insomma, è comprensibile che un governo, di qualsiasi colore, dica ai suoi concittadini prostrati dalla pandemia che con il Recovery cambierà tutto. Dà loro un orizzonte miracolistico di speranza. Meno comprensibile è la foga di partecipare alla presa in giro da parte di chi era riuscito finora, bontà sua, a restarne fuori.

Petronio Di Leo

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