Solinas con “Saint-Just” supera la biografia e apre il dibattito sul nostro tempo

Giuseppe Del Ninno: "Rivoluzione ieri e attualità oggi sono chiamate a confrontarsi con la classicità e dunque con le radici, dovendo verificare persistenza e validità di categorie quali repubblica, popolo sovrano, crisi degli Stati nazionali"

Appartiene alla categoria dei luoghi comuni l’affermazione che i biografi siano o finiscano per essere innamorati dell’oggetto dei loro saggi: fu l’accusa, per limitarsi ad un solo esempio, mossa al capostipite italiano degli storici revisionisti, Renzo De Felice, biografo, fra l’altro, di Mussolini. Ebbene, il nuovo libro di Stenio Solinas, “Saint-Just – La vertigine della Rivoluzione” (Neri Pozza Editore, pag. 166, E. 18) mi conferma che nei luoghi comuni c’è sempre un fondo di verità.

 

A dire il vero, il personaggio Saint-Just, “Angelo della Rivoluzione”, ha affascinato in diverso modo anche autori che del mondo scaturito da quel cruento spartiacque della storia sono stati critici se non avversari: la quarta di copertina del libro di Solinas ne cita tre (André Malraux, Albert Camus e Pierre Drieu La Rochelle), ma fra le pagine si ritrovano anche giudizi non solo negativi di un Taine o addirittura di uno Chateaubriand.

 

Io lo confesso: sarei stato, che so, dalla parte di Joseph de Maistre, per il pensiero, e del comandante Charette, capo della rivolta vandeana, per l’azione, ma il lavoro di Solinas mi ha fornito un più ampio spettro di elementi di valutazione di quel protagonista del Terrore. Ad esempio, mi ha messo in condizione di non condividere il giudizio “monolitico” di Giampiero Mughini, il quale nella sua recensione esorta a diffidare di Saint-Just e dei suoi presunti eredi, che individua principalmente negli stalinisti. Vedremo che le cose non stanno esclusivamente così.

 

Solinas parte proprio dalla descrizione del suo protagonista, come ci rivelano testimonianze di amici e avversari e dipinti (fra i quali il ritratto eseguito dal Prud’hon nel 1793, che fa da copertina). Giovinezza e bellezza sono infatti, per Solinas, elementi costitutivi della personalità e della storia di Saint-Just e della successiva iconografia, caratteristiche – specie la giovinezza – che lo accostano, più che al bolscevismo, ai movimenti fascisti (al “rexismo” belga fondato da Léon Degrelle si applicò il motto “rex appeal”…).

 

Insomma, l’uomo fu tra i protagonisti della Rivoluzione, ma per i posteri sembra occupare più la seconda fila, rispetto ai Danton, ai Marat, ai Robespierre; e questo da un lato figura fra i pregi del lavoro di Solinas, meticoloso e tenace realizzatore e fruitore di un imponente apparato bibliografico, pur nella scarsità delle fonti; dall’altro, ne conferma la propensione ad occuparsi di quelli che mi sento di definire “i marginali di qualità”: i suoi ultimi saggi, infatti, sono dedicati ad Henry de Monfreid e a Wyndham Lewis, nei quali, come in Saint-Just (ma anche in altri prediletti dal Nostro, come Casanova e Lawrence d’Arabia), si cumulavano le prerogative dell’avventuriero, del dandy e dell’intellettuale (ricercato nel vestire, Saint-Just viene colto da Solinas nel suo abito di una sobria eleganza perfino sulla carretta che lo condurrà al patibolo).

 

Del resto, questa “marginalità” sembra confermata dai ruoli secondari dello stesso Saint-Just e dei suoi interpreti nella filmografia e nelle riduzioni televisive della sua vicenda storica: si parte con il “Napoléon” di Abel Gance, – dove lo stesso regista veste i panni dell’Angelo della Rivoluzione – per arrivare alla scialba interpretazione che ne fornisce Boguslaw Linda nel “Danton” di Wajda, nel 1983 (dove però un protagonista come Gérard Dépardieu oscura tutti gli altri), passando per il Saint-Just de “I Giacobini” di Edmo Fenoglio, a cui presta il volto e l’espressione del garbo e della spietatezza Warner Bentivegna. E’ poi singolare che a quest’ultimo venga successivamente affidato il Kirillov del dostoewskjano “I Demoni”, altra figura di comprimario, in quel fiume carsico che fu il Nichilismo, in una sorta di continuità tra l’odio di classe rivoluzionario e, alla fine, il “contemptus mundi” che sfocia nella violenza verso gli altri e verso di sé (Kirillov predica e praticherà il suicidio).

 

Ma torniamo al Saint-Just storico, nella ricostruzione di Solinas, che lo accompagna dalla sua tarda adolescenza, vissuta nel borgo di Blérancourt, e poi nelle sue prime, deludenti esperienze nella capitale. Seguirà un periodo di preparazione alla carriera politica e a quella militare, che lo condurranno fino al patibolo, appena ventisettenne.

 

Solinas si sofferma inizialmente sulle ambizioni letterarie del suo protagonista, all’esordio con un poema in versi prolisso e ampolloso, l’Organt, che lo colloca nel filone della letterature libertina, anticlericale e antiaristocratica. Ma la parabola più interessante è quella politica, che lo vede passare dalle sponde del libertinismo a quelle della Rivoluzione, dall’aspirazione al successo letterario a quella che ha di mira più che il potere l’edificazione di un mondo nuovo. E non è fuor di luogo rilevare le discontinuità e le continuità rispetto ai suoi riferimenti culturali, del Saint-Just politico, il quale, sostiene Solinas, fu comunque uomo delle Istituzioni, contrario al disordine, e che (a differenza di Robespierre, di cui pure fu fedele braccio destro) vide il Terrore solo come strumento temporaneo per attuare la Rivoluzione.

 

Quello che non sempre viene tenuto presente quando si parla della Rivoluzione è il riferimento costante alla classicità greca e romana, in questo senso il “work in progress” rivoluzionario ritrovando l’originario significato astronomico di “ritorno” periodico al punto di partenza, quella “felicità di Atene e Sparta”, contrapposta a quella frivola di Persepoli e che fu l’obiettivo di questo intransigente “Angelo della Rivoluzione”.

 

E’ appena il caso di ricordare che quella felicità, fatta del connubio di virtù e libertà, aveva da poco ottenuto il suo primo riconoscimento politico, con l’inserimento fra gli obiettivi da tutelare nella Costituzione americana. Naturalmente, questo diffuso riferimento all’antichità classica – dei cui testi erano zeppi le biblioteche dei rivoluzionari colti, più che di quelli degli Enciclopedisti – prescinde dalla fondamentale componente religiosa, che in quei testi ha invece un peso rilevantissimo e che nell’innalzamento sugli altari laici della Dea Ragione vede solo una pallida parodia.

 

Proseguendo nella ricostruzione di quell’itinerario esistenziale, Solinas illustra le tappe che fanno di Saint-Just un legislatore e un capo militare, alla testa delle armate del Reno e del Nord, chiamate a difendere i confini della Patria dagli eserciti legittimisti. All’interno di questa parabola, si colloca la lucida, implacabile perorazione con la quale, dai banchi della Convenzione, Saint-Just chiede la condanna a morte di Luigi XVI: con ogni probabilità, l’abbandono delle iniziali convinzioni monarchiche – del resto comuni a tanti rivoluzionari dell’89, come notò Michelet – fu dovuto alla fuga e alla cattura dei reali a Varenne e ne autorizzò, fra l’altro, l’accusa di tradimento della Patria. Un atteggiamento, quello del nostro, che lo fece definire da un avversario “un Montesquieu in erba con il cuore di un Nerone adulto”.

 

“La Rivoluzione comincia dove finisce il tiranno” e “la finezza degli ingegni e dei caratteri è un grande ostacolo alla libertà”: queste frasi di Saint-Just, taglienti come la spada di Alessandro nell’atto di recidere il nodo di Gordio, segnano il passaggio dalla tirannia di un singolo a quella di un popolo – il “Tiberio universale” – che, almeno sotto questo profilo teorico – avvicina la rivoluzione francese a quella bolscevica, che però, a differenza della prima, si basava su di un progetto di società.

 

Sotto un altro profilo – quello militare – Saint-Just fu invece precursore di Napoleone (e aggiungiamo noi) in parte di Mao, con la creazione di un esercito popolare distinto da quello ereditato dalla monarchia, quest’ultimo essendo destinato ad essere inglobato dal primo.

 

Molto opportunamente, Solinas poi paragona la Rivoluzione con l’odierna situazione politica e culturale: entrambe sono chiamate a confrontarsi con la classicità e dunque con le radici, dovendo verificare persistenza e validità di categorie quali repubblica, popolo sovrano, crisi degli Stati nazionali, difficoltà di conferire solidità e potere alle Istituzioni sovranazionali, tentazione dell’uomo-merce universale, che sente sempre meno il bisogno di una rappresentanza politica.

 

In definitiva, ci troviamo di fronte ad un libro che va ben oltre la biografia di un protagonista della storia, un personaggio meritevole di riflessioni e approfondimenti anche sulla scorta delle indicazioni fornite da Solinas.

 

Giuseppe Del Ninno

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