Berto Sour. Se il coronavirus rilancia il cinico produttivismo liberista

La rubrica di "irradiazioni" firmata da Giacomo Petrella: la narrazione del liberismo al tempo della pandemia

Tempi moderni

Oltre le nebbie della Società dello Spettacolo 4.0, la crisi legata all’emergenza sanitaria sembrerebbe aver rotto l’incantesimo positivistico della narrazione liberista. Il balbettìo degli ultimi mesi, le contraddizioni, il caos generalizzato che le classi dirigenti hanno alimentato in tutto l’occidente rivelano, infatti, quale drammatico comun denominatore un punto essenziale: il liberismo arranca nel confermarsi come lettura razionale, scientifica e oggettiva dei fenomeni politico-sociali; il Covid ha infatti violentemente sconfessato quella epistemologia popperiana che aveva fatto del liberismo l’unica possibile lente deduttiva della realtà.

Gli esempi non mancano: sulla questione monetaria molto si è già detto e si è già scritto, anche su queste pagine: i grandi accademici del “non esistono pasti gratis”, nel giro di pochi giorni si sono trasformati in convinti cartalisti pronti a stampare l’instampabile. Con buona pace di intere generazioni di studenti cresciuti a pane e deflazione salariale.

Ma è lo stesso dibattito scientifico-sanitario, quello che per ordine della “società aperta” era stato eticamente lasciato alla sola comunità scientifica, considerata antropologicamente immune alle asimmetrie o alle esigenze di mercato di Big Pharma e per questo da considerarsi alla stregua di una Banca Centrale qualsiasi, il cui bene supremo doveva essere l’indipendenza dalla politica e dalla democrazia, ad aver raggiunto le soglie del ridicolo in un clamoroso guazzabuglio di teorie, di ipotesi, di personaggi e di teatrini del tutto privi della ben che minima centralità ed autorevolezza.

Il costo di tutto ciò si riversa, ancora una volta, sul cittadino-spettatore. Un cittadino sempre più passivo ed alienato, pronto a garantire il drenaggio “inflazionistico” con l’ennesima patrimoniale nascosta o palese che sia; pronto ad assecondare ogni riconversione “bellica” del grande capitale; sempre attento ad abboccare ad ogni conflitto orizzontale (garantiti vs precari, vecchi vs giovani ecc) pur di non disturbare la gestione in amministrazione controllata della Cosa Pubblica.

E tuttavia, in questi giorni qualcosa è accaduto: il virus che muta troppo velocemente, il vaccino che arriverà ma che non servirà; le proteste “antidemocratiche” di chi fatica a comprendere come un semplice orario, un coprifuoco, una chiusura selettiva, incida sul numero dei posti letto in Terapia Intensiva; tutto ciò ha portato il liberismo a svelare il proprio volto irrazionale.

In barba alle più solide leggi ricardiane l’establishment economico e sanitario ha candidamente ammesso che non tutto è essenziale: che esiste del superfluo, dell’inutile, e che dunque, delle scelte, “anche impopolari” si possono fare. Giovanni Toti, il Governatore della Liguria, in pieno spirito confindustriale, lo ha addirittura scritto: una selezione delle libertà in base alla produttività, è necessaria.

Ai meno attenti questo tipo di affermazioni sembreranno esagerazioni di personalità narcisistiche stressate da una situazione di pieno panico; e tuttavia è proprio nel panico che si rivela la propria identità: il liberismo sta oggi tornando a forme irrazionali di darwinismo sociale pur di mantenere in piedi il grande costrutto ideologico e di potere dell’utile privatistico a tutti i costi e dell’economicismo come uniche fonti scientifiche validanti.

Un corto circuito antidemocratico ed antisociale che lascia intravedere lo squarcio nel velo di Maya: il liberismo non è scienza, è una ideologia, e come tale non estrae i propri valori da una realtà data, ma li crea e li pone. Con estrema volontà di potenza. In questo senso è facile spiegare la triste sponda politica che tutte le vecchie sinistre continuano ad offrire al Mainstream quando guardano con orrore alle piazze in rivolta: l’intellettualistico nostalgismo positivista e determinista della “crisi definitiva e naturale del capitalismo”, quel marxiano ramo secco da tagliare, allontana sempre più ogni categoria definita oggi superflua, o inutile, perché già sottomessa, dal rinnovato impegno politico e sindacale.

Come già scriveva Costanzo Preve, se la politica vuole tornare ad essere nuova, deve inevitabilmente dare scandalo, rileggere Bergson e Sorel e compiere qualcosa di eretico. Ricreare i presupposti, in termini di mito e di volontà di potenza, per la costruzione di una società comunitaria fattivamente alternativa alla distopica ed alienata figura del suddito tecnocratico.

@barbadilloit

 

Giacomo Petrella

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