Il caso George Floyd, la violenza di un’America che non ha nulla da insegnare

Le proteste dopo l'assurdo uccisione a Minneapolis. I dati sulle morti devono indurre a una riflessione

Negli Usa si muore troppo per mano della polizia. Il decesso di George Floyd, la cui morte sta incendiando l’America di Donald Trump, è soltanto l’ultimo in ordine di tempo. I numeri messi a disposizione da Nessuno tocchi Caino, dicono dall’1 gennaio 2000 sono 24.000 le persone uccise per mano della polizia. I dati recenti confermano una situazione ad alta tensione: nel solo 2018, infatti, sono 1810 le vittime. I numeri ci dicono nel dettaglio anche dell’altro: stando al genere, sono «1606 maschi, 189 femmine, 2 transgender, e 13 il cui nome e altri dati sono stati omessi dalla polizia. Divise per razza, le vittime sono: 649 bianchi, 377 neri, americani di origine africana, 240 ispanici, 23 nativi americani o alaskani, 23 asiatici, o delle isole del Pacifico, 1 mediorientale e 497 di origine non specificata. Di 133 vittime (7,3%) non si conosce l’età. Della restante parte, 15 avevano meno di 10 anni, 27 tra gli 11 e i 16 anni, 59 tra i 17 e i 18, 281 tra i 19 e i 25, 720 tra i 26 e i 40 anni, 464 tra i 41 e i 60, 81 tra i 60 e i 70 anni, 20 tra i 70 e gli 80 anni, e 10 tra gli 81 e i 90 anni. Nel complesso, 101 delle 1.677 vittime di cui si conosce l’età era minorenne, il 6%».

Una nazione violenta

Nel solo 2018 sono morti quindi assai più i bianchi che i neri. Una proporzione che tuttavia non assolve nessuno. Perché, prima ancora di parlare di razzismo, è certo che la questione razziale, in America, è ancora in cima ai suoi mali. Nonostante la Guerra civile (esplosa sulla scorta dell’abolizione della schiavitù), le battaglie per i diritti civili degli anni Sessanta e Settanta, le morti eccellenti di Malcolm X, Martin Luther King e John F. Kennedy, e il doppio mandato presidenziale di Barack Obama.

La questione razziale non è la sola a inquinare l’America. I numeri già citati forniscono l’immagine plastica di una nazione profondamente lacerata e violenta. Spiega Giovanni Giacalone su InsideOver (spin off Esteri de Il Giornale): «Più che un problema di razzismo, il problema può essere ricollegato a una società tendenzialmente violenta in un Paese dove si può essere uccisi a colpi di arma da fuoco per una “banale” rapina, per un ‘drive-by shooting’ tra gangs, per aver suonato alla porta sbagliata nella sera di Halloween, ma si può anche essere ammazzati dalla polizia per una “banale” infrazione. Le stesse reazioni ad aggressioni e omicidi ingiustificati da parte della polizia – continua Giacalone – sfociano spesso in proteste che a loro volta degenerano in tumulti ai quali si uniscono teppisti e delinquenti di strada che approfittano della situazione per saccheggiare negozi, facendo così passare in secondo piano l’omicidio di turno e legittimando la conseguente linea dura da parte delle forze dell’ordine. Chi ha vissuto i giorni degli “L.A. Riots” del 1992 sa bene di cosa si parla».

Una nazione che s’incendia troppo facilmente. Che ha bisogno di odiare e sfogarsi per rimanere in sella tra le mille contraddizioni di un sistema che macina pil mentre ammassa povertà e psicosi. La differenza tra Usa e Europa, da questo punto di vista, è sostanziale. Ma gli intellettuali europei spesso perdono di vista questa distanza. Diversamente non rincorrerebbero un’agenda, quella americana, che sui temi del razzismo, della parità di genere, istanze arcobaleno, giustizia sociale, è davvero tanto attardata quanto lacerata. Davanti a questa rappresentazione, Donald Trump, prossimo al voto di presidenziale di novembre,  è chiamato a gestire i riots seguendo tre direttrici: chiedere giustizia, pugno duro contro i manifestanti, ma stando attento però a non mortificare l’elettorato wasp, di fatto il suo gruppo sociale di riferimento.

Quando lo Stato uccide

Fuori da contesto americano, va tuttavia evitata una lettura unidirezionale (e ideologica) dei tumulti in atto, quali – serve ricordarlo – esplodono all’interno di un contesto già sfibrato dai numeri della pandemia da Covid 19. Numeri che sono tra i più altri in assoluto sullo scacchiere globale. La questione va ricondotta al dramma in sé. Perché, quando è uno stato democratico a uccidere, la morte arriva due volte e l’amarezza pesa il doppio. Per chi cade, ovviamente. Ma anche per la società: ferita e violata da chi aveva giurato di proteggerla persino da un potere che non deve mai abusare delle proprie forze e capacità. Proteggerla da se stessi, cioè. L’America piange, e si ribella, per l’eccesso di violenza dei poliziotti di Minneapolis.

Vite spezzate

In Italia abbiamo conosciuto i casi Sandri, Giuliani, Aldrovandi. Abbiamo conosciuto le lacerazioni figlie delle omertà che hanno accompagnato Stefano Cucchi verso la tomba. Le verità inconfessabili sui carabinieri che hanno colpito pesantemente un ragazzo hanno creato un cortocircuito. Cucchi, nonostante le presunte colpe personali, era pur sempre cittadino di una nazione che ripudia la pena capitale. E, prima ancora, la tortura. I fatti emersi in tribunale hanno messo in crisi la credibilità di una istituzione, l’Arma, da sempre architrave dei valori nazionali. È vero, la politica (soprattutto a destra) ha avuto grosse difficoltà ad attutire il colpo e reagire attraverso le ragioni del diritto. Preferiamo pensare che tutto ciò sia avvenuto per lo choc di sapere che anche chi indossa la divisa può sbagliare. Ci piace pensarlo, ma sappiamo che non è così.

Giustizia

C’è un limite invalicabile. E non va mai superato. Quello tra la vita e la morte, attraversato il quale si entra nel campo oscuro dove il diritto è annichilito, l’umanità calpestata, la credibilità azzerata. Non giudichiamo dunque l’America, non senza averla annusata da vicino.  Prendiamo atto semmai che un uomo ha smesso per sempre di respirare. E sarà soltanto l’esercizio equo ed equilibrato della giustizia ad alleviare un dolore che è già di per sé insopportabile.

@fernandomadonia

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Fernando M. Adonia

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