“Anatomia del populismo”, l’antologia curata da Marco Tarchi

Una analisi scientifica dei movimenti che hanno rivoluzionato il panorama politico europeo

Anatomia del populismo

Il populismo è diventato argomento di dibattito nei talk-show televisivi e radiofonici e non solo all’interno della comunità scientifica; innumerevoli detrattori gli attribuiscono in automatico un’aurea di negatività, spesso al termine di analisi approssimative – se non basate su pregiudizi – infarcite di termini apocalittici (deriva) o presi a prestito dal vocabolario medico (sindrome, contagio, virus).

Marco Tarchi, docente universitario, politologo e curatore di “Anatomia del Populismo”, antologia tratta dalla sua Rivista “Trasgressioni”, richiama nell’introduzione, prima di lasciare ampio spazio ai contributi di vari accademici, l’indicazione di Max Weber secondo la quale lo studioso non dovrebbe confondere due piani nettamente distinti: la presa di posizione politica e l’analisi scientifica. A maggior ragione ciò dovrebbe valere nei confronti di un fenomeno eterogeneo, capace di adattarsi all’istante a realtà mutevoli, ciclicamente ricorrente nei periodi di crisi e privo di una definizione comunemente accettata; taluni lo considerano un’ideologia, altri un partito o un movimento politico, altri ancora uno stile comunicativo. 

Non senza aver osservato che il carattere di eccezionalità sovente attribuito al populismo non corrisponde alla concreta realtà politica, Tarchi conferma la propria idea: esso è una mentalità che individua nel popolo, inteso come

“totalità organica artificiosamente divisa da forze ostili, naturali qualità etiche, ne contrappone il realismo, la laboriosità e l’integrità all’ipocrisia, all’inefficienza e alla corruzione delle oligarchie politiche, economiche, sociali e culturali e ne rivendica il primato come fonte di legittimazione del potere, al di sopra di ogni forma di rappresentanza e di mediazione”.

Dunque è una forma mentis, una predisposizione psichica più emotiva che razionale, trasversale allo “spartiacque” destra/sinistra, incentrata sulla contrapposizione verticale tra “quelli che stanno in alto e quelli che stanno in basso”, ancorata ad una visione semplificata e manichea della realtà, propugnatrice di una concezione idilliaca del passato, che idealizza una “comunità immaginata”, unita e cicatrizzante in quanto armonizzatrice di  contraddizioni e di interessi opposti. 

Le radici storiche

Le sue radici storiche, identificabili nelle rivolte contadine del Medioevo e non solo – come sostenuto da più parti – nelle differenti esperienze dei narodniki russi e del People’s Party statunitense di fine Ottocento, devono essere ricercate nella mobilitazione contro l’establishment ed in una forte carica identitaria. Di qui, come osserva Pierre-Andrè Taguieff, alcune varianti: quelle sudamericane del XX secolo che, oscillando fra demagogia e protesta, si caratterizzarono sia per la manipolazione delle masse che per la loro “irruzione” nello sviluppo urbano e industriale e quelle del nazional-populismo autoritario, fautore del principio della “preferenza nazionale”. 

Il riferimento ad una nozione restrittiva di cittadinanza è l’estremizzazione di una concezione differenzialista sostenitrice della difesa delle specificità di culture e popoli, apertamente contraria al multiculturalismo ed alla globalizzazione. L’onda di diffidenza verso gli immigrati, accusati di contribuire poco al benessere collettivo in termini di prestazioni di lavoro, di pagamento delle imposte e di voler beneficiare senza meriti dei vantaggi della previdenza sociale, alimenta atteggiamenti xenofobi, quindi di diffidenza e di paura, che si traducono in astio e non, a meno di casi sporadici, nella violenza fisica tipica del razzismo. Occorrerebbe, infatti, distinguere in modo chiaro le molteplici varianti del populismo dalle problematiche identificazioni con formazioni di “estrema destra” o “destra radicale”, collocate a considerevole distanza rispetto alle prime su tematiche quali: libero mercato, individuo, Stato, democrazia, nazione, popolo e via elencando. 

Come sottolineato da Meny e Surel, nel momento in cui due concezioni del popolo – quella che fa riferimento all’ethnos e quella che si richiama al potere del demos – si sovrappongono, il populismo trova terreno fertile proprio nel deficit di funzionamento della democrazia, alla quale è intimamente connesso. Esso riscuote consenso sia grazie alla capacità di mobilitare il risentimento per le promesse che le elites scelte dal popolo non riescono a mantenere, sia approfittando del vuoto progressivamente lasciato soprattutto dalle forze di sinistra come catalizzatrici del voto di protesta. 

La centralità del potere popolare

La divaricazione tra la forma diretta – di cui il populismo, considerata la centralità che attribuisce agli istituti del referendum, della legislazione di iniziativa popolare e del mandato imperativo, è radicale sostenitore – e quella rappresentativa viene inquadrata da Margaret Canovan nel cosiddetto “doppio volto della democrazia”: uno “redentore”, basato sulla centralità del concetto di potere popolare, su un forte impulso anti-istituzionale, sulla ricerca di un mondo migliore attraverso l’azione del popolo sovrano; l’altro “pragmatico”, che riduce il termine a forma di governo, individua nelle Istituzioni il fondamento ed il limite del potere, si materializza nei sistemi multipartitici e nelle libere elezioni. 

Nel momento in cui il gap tra questi due volti si dilata, l’estraneità al popolo degli Stati democratici in quanto Istituzioni si traduce in un abisso nel quale il populismo può essere riconosciuto come “un’ombra proiettata dalla democrazia”; oppure come il suo “spettro”, parafrasando il pensiero di Benjamin Arditi, che sottolinea la metamorfosi e la conseguente necessità di procedere ad un  aggiornamento dell’idea di rappresentanza, il passaggio dalla democrazia dei partiti a “quella dell’audience”, i caratteri di disturbo e di rinnovamento che non ostacolano, comunque, gli assetti istituzionali delle democrazie (soprattutto di quelle “mature”), la sfiducia verso le procedure istituzionali e le complicazioni del processo legislativo, che può sfociare in prassi plebiscitarie e, quindi, autoritarie.

Catalizzatore di paure

Il populismo, spesso confuso e “ridotto” ad antipolitica (cioè ad una delle sue varie “facce”) si caratterizza per la capacità di intercettare non solo il malcontento verso gli immigrati, specialmente quelli di fede islamica, ma anche le inquietudini derivanti dalla disoccupazione di massa, dalle diseguaglianze delle condizioni economiche che affliggono i cosiddetti “perdenti della globalizzazione” (piccoli commercianti, agricoltori, impiegati, operai non qualificati) ed il consenso di elettori ben disposti ad accettare promesse mirate a rendere più trasparente la politica, a dare scacco alle connivenze tra le elites, a ripristinare la legge e la sicurezza. Le lamentele sull’immigrazione sono, talvolta, accentuate più sotto il profilo culturale che economico; ciò accade quando le minacce rivolte a modi e stili di vita vengono percepite in maniera più marcata rispetto ai pericoli che incombono sui livelli di vita, tanto da indurre a porre in risalto – come fa Dominique Reyniè – più i caratteri immateriali che quelli materiali del populismo patrimoniale.

La polemica contro l’alta finanza ed i banchieri, i politici di professione e gli intellettuali, le burocrazie nazionali ed europea, l’esaltazione dell’etica produttivistica e del valore delle piccole e medie imprese, il frequente richiamo a teorie cospirative sono i tratti più ricorrenti dell’appello al popolo; il linguaggio politicamente “scorretto” del leader – semplice, immediato, diretto – si affianca spesso alla convinzione che i problemi politici siano risolvibili utilizzando il buon senso della gente comune. 

I partiti populisti

L’organizzazione interna dei movimenti populisti, molto meno strutturati rispetto ai partiti tradizionali, si configura in senso fortemente centralizzato e più o meno marcatamente autoritario-paternalista, in netta contraddizione rispetto alla sbandierata centralità del principio della democrazia diretta; le decisioni, solitamente prese dal vertice con la partecipazione di una ristretta cerchia di attivisti, vengono trasmesse ad una base soggettivamente convinta della legittimità e delle qualità del leader, spesso acclamato come “carismatico”.

In tal senso le riflessioni di Flavio Chiapponi sono illuminanti perché sgomberano il campo da un equivoco: l’autorità carismatica deve essere interpretata come leadership fortemente personalizzata – dinamica comune, seppur con minor intensità, a tutti i partiti contemporanei – fortemente irrazionale ed instabile perché l’investitura dei seguaci, legata alla capacità del leader di garantire ad essi i benefici promessi, non è incondizionata. 

Non esiste, quindi, un automatismo tra leader populista e carisma, né un criterio oggettivo di identificazione delle doti straordinarie che egli deve incarnare: quando non rimangono vaghe, esse sono riconducibili al buon senso, all’onestà e alla semplicità dell’uomo del popolo. Basti pensare alla retorica spesso utilizzata da Matteo Salvini quando ripete ai propri sostenitori lo slogan: “Io sono uno di voi”.   

Proprio il caso dell’Italia, paese definito da alcuni studiosi “laboratorio” del populismo, conferma quanto appena detto sulla natura del legame tra leader e carisma: è difficile interpretare diversamente, infatti, la parabola di Beppe Grillo – passato rapidamente dalla guida all’auto-esclusione – all’interno di un movimento, tra l’altro, populista a pieni carati solo fino al momento del suo volontario abbandono. Rilevante è anche l’analisi sulla genesi e sul consolidamento di un partito-azienda come Forza Italia: sotto gli aspetti organizzativo e comunicativo emergono evidenti differenze con la Lega, acuite dai diversi “livelli” di carisma riscontrabili tra i segretari via via succedutisi alla guida del Carroccio e Berlusconi, capace di legare a sé talmente a doppio filo le sorti del proprio partito da non avere mai preso in considerazione l’ipotesi di una successione.

A prescindere dalle vicende italiane “Anatomia del Populismo” fornisce un quadro esaustivo sulla diffusione del fenomeno, avente ormai una dimensione planetaria, anche nei paesi ex comunisti dell’Europa orientale, ma soprattutto rimuove un ulteriore luogo comune riguardante un’altra area geografica. Il consolidamento di partiti populisti nei paesi della penisola scandinava dimostra, infatti, come il fenomeno abbia ormai attecchito anche in democrazie ricche ed avanzate, da sempre all’avanguardia dal punto di vista sociale e culturale. Additarli superficialmente come “pericolosi” è fuorviante; sottoporli ad un’analisi approfondita è – a modesto parere di chi scrive – l’obiettivo raggiunto che rende veramente consigliabile la lettura di questa antologia. 

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Andrea Scarano

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