Le radici di FareVerde/19. Un manifesto per l’ecologia profonda

Ecologia profonda

In Ecologia una questione di civiltà, opuscolo in formato A 4 autoprodotto dal gruppo romano di Fare Verde nel febbraio 1987, è delineata con chiarezza e precisione analitica la visione ecologista dell’associazione, che è alternativa al modello di sviluppo oggi dominante, consumistico, energivoro, materialistico. Tutto ruota intorno ad una domanda fondamentale:
«perché proprio la nostra civiltà del XX secolo (tanto superiore alle precedenti secondo i libri di storia) sta devastando ciò che per secoli aveva mantenuto un equilibrio così perfetto?»
La risposta risiede nella concezione del mondo che si è affermata con la rivoluzione industriale e nel dubbio, che via via è diventato certezza, che forse prima di inquinare la Terra l’uomo ha inquinato se stesso:
«L’avvento delle teorie illuministe e materialiste tra il XVIII e XIX secolo, segna una profonda cesura con le civiltà del passato, relegando il sacro, la spiritualità, le forme morali, la volontà ed in breve tutto ciò che non rientra nel mondo del materiale e del quantitativo nel ghetto delle sovrastrutture quando non venivano tacciate come invenzioni delle forze reazionarie. Gli abitanti della Terra fino ad allora non erano certo vissuti di sola contemplazione, meditazione o di guerre, ma la mentalità, le religioni, le leggi, in una parola la concezione della vita, impedivano che le attività umane assumessero quel ritmo frenetico e quella dimensione esclusivamente economica che le dottrine materialiste porranno come unico metro di giudizio delle attività umane.»
Non è un caso se tra i paesi più inquinati e più inquinanti del mondo ci siano gli Stati Uniti e la Cina. Il raffronto tra la civiltà dei nativi e la nuova civiltà americana è illuminante:
«Lo scontro tra coloni americani e pellirosse fu lo scontro tra una visione materiale e mercantile del mondo e degli uomini ed una visione in cui il senso del sacro e dei valori “senza prezzo” pervadeva ogni rapporto non solo tra le persone ma anche tra uomo ed ambiente che lo accoglie. Per gli americani il territorio rappresenta un’occasione economica da sfruttare: oro, minerali, petrolio, ferrovia, impianti industriali, il cui unico valore è il prezzo in dollari che può fruttare; i pellirosse vedono nell’ambiente l’immagine e la realizzazione della divinità, dei cui doni che danno loro da vivere, non bisogna abusare. Se la legge del profitto è l’unica regolatrice nei rapporti tra uomo ed ambiente, le conseguenze non tardano a farsi sentire.»
Nelle megalopoli queste conseguenze balzano agli occhi macroscopicamente:
«Lo sradicamento dell’uomo da ogni legame avviene nelle città, o meglio, nella metropoli; quest’ultima non ha nulla a che vedere non solo con le città dell’antichità, ma anche con quelle esistenti fin a quarant’anni fa [ottant’anni, n.d.a.] o poco più. Balzano agli occhi le dimensioni sproporzionate della metropoli, le sue periferie, i suoi grattacieli che isolano e dividono le centinaia di persone “inscatolate” al loro interno, la spersonalizzazione a cui porta il vivere in essa: qui il ritmo della vita è scandito non più dalle stagioni, ma dal succedersi sempre più frenetico delle mode nell’abbigliamento, nello svago, nei rapporti con gli altri, improntati, questi ultimi, ad una competizione fondamentalmente consumistica incoraggiata dai media (…) il filtro più efficace nel mediare i rapporti tra i cittadini è la televisione, attraverso la quale ogni notizia od avvenimento vengono diffusi con una interpretazione dei fatti scelta da pochi, ma che diverrà la versione “ufficiale” per tutti gli utenti (…) La metropoli diventa così la negazione e la morte della città intesa come luogo che aggrega ed unisce i suoi cittadini. (…) problemi come la violenza, la droga, l’inquinamento, l’emarginazione, la disoccupazione sono destinati a rimanere irrisolti perché connaturati all’essenza stessa della metropoli.»

Oltre il mito del progresso

È dunque il mito del progresso a dover essere messo in discussione:
«le antiche filosofie sia orientali che occidentali concepivano periodi di ascesa e di dei decadenza per le civiltà (…) L’ideologia progressista concepisce la storia come una linea retta tendente in ogni caso verso un futuro sempre migliore (…) La fiducia illimitata nel progresso riduce la degradazione dell’ambiente ad inconveniente meramente tecnico al quale “presto” la scienza saprà trovare accorgimenti e rimedi (…) ma gli accorgimenti tecnici non “rimettono le cose a posto”: o le tamponano o le allontanano. Si alzano le ciminiere per impedire inquinamento nelle vicinanze ed esso si presenta più lontano, l’acqua di moltissime città europee ed americane è potabile solo per il cloro immessovi, le scorie nucleari sotterrate hanno una radioattività perdurante per secoli, produciamo rifiuti indistruttibili e non riutilizzabili, in quantità enormi che pur essendo stati prodotti dalla civiltà di una sola generazione degradano ed inquinano zone ambientali sempre più vaste (…)».
Ma come vive l’uomo “civilizzato”?
«Come l’apprendista stregone, l’uomo moderno rimane schiavo di quei fenomeni che lui stesso ha suscitato. (…) Quelle che in un primo tempo i vengono proposte (e propinate) come comodità, dopo un breve periodo di “assuefazione”, diventano necessità delle quali non sappiamo più fare a meno: dall’automobile al motorino, dagli elettrodomestici (anche i più insulsi) alla televisione, dalla calcolatrice ai cibi ed alle bevande in scatola od in plastica che risparmiano la fatica di cucinare o o di lavare. Siamo alla perenne ricerca di soddisfare bisogni creati artificialmente rincorrendo l’inafferrabile felicità promessa dagli spot e dalle immagini pubblicitarie che martellandoci ogni giorno , non ci convincono apertamente ma pian piano ci rendono familiare e normale avere quel prodotto del quale pochi messi prima non sentivamo alcuna necessità (…) Un soggetto alla continua ricerca di felicità e di sicurezza nei beni esterni non può che essere un consumatore frenetico anche al di là delle sue possibilità economiche. La sua vita è fatta solo di ciò che lo circonda, se gi si toglie qualcosa subentra un vuoto angoscioso (…) Il rapporto con gli altri è improntato alla competizione individualistica che Konrad Lorenz indica come uno degli otto peccati capitali della nostra civiltà. (…) Hanno il mito dell’igiene: usano chili di detersivo per il più bianco che non si può, consumano ettolitri d’acqua calda, sono fanatici dei prodotti di cosmesi, eppure nell’habitat che si sono costruiti respirano anidride solforica, piombo, ossido di carbonio, (quando sono fortunati e non aggiungono altre “specialità della casa” tipo diossina ecc.), si nutrono con cibi conservati, colorati, precotti e predigeriti, ingurgitano chili di prodotti chimici (di cui non conoscono minimamente la composizione) chiamati medicine, vivono nel caldo dei termosifoni d’inverno e nel freddo e della’ria condizionata d’estate.»
Si tratta, in buona sostanza, di un modello di sviluppo sbagliato, irrazionale, nocivo, avallato da un’ideologia progressista che
«trascina dietro di sé alcuni luoghi comuni tra cui ve n’è uno che indica come miglior sistema socio-economico quello in cui la produzione industriale, il consumo civile nonché la richiesta energetica aumentano indefinitamente. (…) Tutto ciò senza tener conto che la Terra non è certo in grado di sostenere il saccheggio di risorse e l’inquinamento di altri paesi che volessero imitare in tutto e per tutto l’America. In Italia per decenni si è incoraggiata una industrializzazione selvaggia al nord (come in seguito al sud) [ad esempio, l’ILVA di Taranto, n.d.a.], in cui non solo hanno trovato spazio iniziative subito rivelatesi economicamente fallimentari (siderurgia, chimica, petrolchimica, ecc.), ma solo ora ci si comincia ad accorgere del costo ambientale, in termini di avvelenamento di falde idriche, di fiumi e del suolo prodotto dalle scorie e dai rifiuti tossici».
Le soluzioni non sono semplici, ma è certo che

«il problema ambientale non è risolvibile con dei semplici interventi legislativi di limitazione degli effetti inquinanti»

e che occorre

«sottoporre ad una critica continua tutte quelle presunte esigenze di oggi, dimostrando che “l’aver bisogno di molte cose, tutte procurabili in cambio di denaro, non è sintomo di o sinonimo di superiorità civile, bensì di inferiorità, vanifica ogni concetto di sostanziale libertà ed è fonte di continui decadimento fisico e mentale” (da “il prezzo della salvezza”)».

Quella che propone Fare Verde è una rivoluzione culturale che partendo dai propri comportamenti quotidiani finisca per estendersi a tutto un modello di sviluppo economico e di civiltà. Una autentica rivoluzione culturale, insomma, che, recuperando insegnamenti delle civiltà tradizionali, porti gradualmente ad una riconversione ecologica dell’economia (basata su fonti alternative e rinnovabili, sul consumo critico, sul chilometro zero, sull’efficienza energetica e tecnologica, sulla riduzione riuso e riciclo dei materiali, sulla messa al bando di materiali non biodegradabili e dei pesticidi nell’agricoltura, ecc.) e su uno stile di vita che possiamo qualificare di felice sobrietà.

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Sandro Marano

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