Esteri. Il caso Soleimani e le contraddizioni della politica internazionale dei sovranisti

Soleimani

Sarà forse per l’ammirazione che nutro verso il principe Metternich, ma ho sempre pensato che la politica estera sia un’arte raffinata, per definizione elegante perché vi si discerne e sceglie (eligĕre) e in cui il genio politico viene esercitato in sommo grado. In effetti, la materia è complessa e le possibili conseguenze gravissime. Diciamo così: se fossi un capo di governo, ad occuparsi di politica estera ci metterei il proverbiale “pezzo da novanta”, l’uomo più dotato di capacità politiche su cui possa contare – perché si tratta anche di questo, di accordargli piena fiducia. Se fossi capo di governo di uno Stato assoluto, la scelta ricadrebbe su chi mi pare, perché decido io. Se invece fossi capo di governo di uno Stato repubblicano, magari di tipo parlamentare, magari democratico a suffragio universale, le possibilità si riducono fisiologicamente: dovrei indicare una persona che adotti una strategia coerente al programma di governo della maggioranza eletta dai cittadini. Quindi: in questo secondo caso, la persona incaricata di condurre la politica estera dello Stato dovrebbe essere sia molto competente che coerente ad un programma politico di parte (quella eletta per governare, naturalmente). 

Qui incontriamo il cortocircuito della situazione attuale in Italia. Infatti l’attuale maggioranza di governo, assemblata in maniera raffazzonata quest’estate in Parlamento, non ha né un programma di governo in generale, né un programma di politica estera in particolare – ammenoché non si voglia considerare la completa sottomissione all’Unione Europea un programma politico, ma anche se lo facessimo, come vedremo più avanti, non potrebbe comunque esserlo. Risultato immediato: la paralisi. Poi, siccome le circostanze internazionali costringono comunque l’esecutivo ad occuparsi di politica estera, in mancanza di una qualche programmazione si procede alla giornata nella maniera più imbarazzante possibile: cioè prendendo tempo, che tradotto in pratica significa fare appelli alla moderazione, alla diplomazia (sembra quasi una tautologia: se fai politica estera è ovvio che tu debba anche fare diplomazia), alla pace (purchessia)… Risultato di medio periodo: l’Italia resta affacciata alla finestra, mentre fuori accade di tutto. Infine, risultato sul lungo periodo di un’(in)azione di governo di questo tipo: l’Italia viene tagliata fuori dalla politica internazionale, marginalizzata e costretta ad elemosinare qualche briciola di ciò che cade dalla tavola della politica estera altrui – come abbiamo già visto all’indomani delle “Primavere arabe”. 

Dalla formazione dello Stato moderno, la politica estera è divenuta progressivamente la politica par excellence. Se la categoria fondamentale della politica è l’opposizione (πόλεμος) Amico/Nemico, come ha ampiamente dimostrato Carl Schmitt, allora il confronto tra Stati è l’occasione più evidente in cui la rileviamo: niente è più politico di una guerra, o di un’opzione bellica, tra Stati. Stando così le cose, verrebbe da trarre come logica conseguenza che gli Stati che escludono la guerra anche solo come ipotesi, sono Stati in cui, di fatto, non c’è politica, che non fanno politica. E se non fanno politica, che fanno? Si anchilosiscono nella governance burocratica, che è il prodotto di un assetto statale tecnocratico. Ebbene: senza politica, niente politica estera; niente politica estera, riduzione all’irrilevanza internazionale ed inglobamento in sfere d’influenza di Stati i cui governanti agiscono ancora politicamente (nel caso peggiore, eh, ci mancherebbe, ma la tendenza resterebbe comunque in quella direzione). Da queste premesse, potremmo en passant segnalare che dallo Stato Italiano la guerra è ripudiata «come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali […]» (art. 11 della Costituzione); mentre l’Unione Europea, pur senza essere così precisa (siccome ancora una Costituzione non ce l’ha), non manca certo di  ribadire ad ogni occasione che aborre la guerra ed ogni conflitto. 

Prendo spunto da questa digressione sulla politica, per concludere questa riflessione spostando l’attenzione dal contesto internazionale a quello interno. Perché ci sia πόλεμος, è necessario che ci sia un oggetto del contendere, qualcosa o qualcuno per cui bisticciare. Lo scorso 3 gennaio è stato ucciso in un raid statunitense il generale iraniano Qasem Soleimani, una sorta di eroe nazionale del grande Stato sciita – che come ogni eroe che si rispetti, è anche, se non soprattutto, un simbolo culturale. È «simbolo» (συμβολον), cioè qualcosa che crea un legame,  qualcosa che quindi, per definizione, non è divisivo. Se non è divisivo, è un  bene comune per un certo gruppo di persone. Ma ciò che tiene unito un gruppo, secondo la logica della politica, può dividere quello stesso gruppo da un altro – dividere e quindi, plausibilmente, opporre. E il generale Soleimani ha opposto eccome! Ma non parlo tanto delle inevitabili tensioni tra Iran e U.S.A.; in questo caso parlo dell’opposizione interna al mondo della Destra italiana. Nonostante i baci e gli abbracci che i vari leaders politici di quest’area ed i loro seguaci si scambiano al momento delle campagne elettorali – specie se poi risultano vincenti – emerge chiaramente come le posizioni non solo non siano affatto uniformi, il che è ovvio, ma che potrebbero pure essere incompatibili. Contendersi il giudizio su un simbolo come Suleimani rivela che siamo difronte non a una dotta bagatella tra islamologi, ma piuttosto tra visioni del Mondo (molto) diverse tra loro. Non si tratta solo di atlantisti vs russofili, filo-statunitensi vs anti-statunitensi. Probabilmente, se provassimo a guardare più addentro, scopriremmo radici profonde dalle quali si stagliano fusti e fronde che solo con arditi innesti appaiono compatibili. In fondo, questo è il grande servigio che la politica rende alla civiltà: svelare i trucchi e mostrare quali sono le possibilità che possiamo cogliere, quali le strade che possiamo percorrere verso l’avvenire. 

E questo vale anche per la Destra italiana, come area politica; ma, forse, sarebbe meglio parlare di “Destre” italiane, come inclinazioni culturali ed ideologiche. Quante sono? Chi sono?Che vogliono? Sono compatibili? E come potrebbero esserlo? Queste sono le domande che s’impongono con sempre maggiore urgenza ai loro leaders e che vengono continuamente procrastinate a causa della perenne rincorsa elettorale, una vera e propria sostanza oppiacea nel cui ottundimento si consuma la vita della nostra civiltà.

@barbadilloit

Niccolò Mochi-Poltri

Niccolò Mochi-Poltri su Barbadillo.it

Exit mobile version