Focus. Il caso Soleimani, Trump e la politica come spettacolo per i sovranisti

Soleimani in preghiera nel 2016

Il Pentagono fa sapere che l’ordine di attaccare l’aeroporto internazionale di Baghdad è arrivato direttamente da Donald Trump. Perlomeno, questa è la versione più o meno ufficiale. Il raid ha provocato la morte di dieci persone, cinque irachene e cinque iraniani. Tra loro, come è noto, ha perso la vita anche il Generale Quassem Soleimani, già alla guida delle milizie al-Quds dei Guardiani della Rivoluzione, l’élite dell’esercito iraniano. Lo stratega, il simbolo dell’Iran che non si piega agli intrighi statunitensi e all’accordo Usa/Iran che non riguardava solo le questioni mercantili, quelle sul nucleare e le sanzioni, è stato detronizzato con un drone. Era molto vicino all’ayatollah Khamenei, a quel conservatorismo politico-religioso-statuale della Mezzaluna sciita che non diede il via libera all’accordo, alla vigilia della partenza per New York di Hassan Rouhani. Pronto a siglare quello che per Khamenei e Soleimani, rappresentava l’ennesimo inganno made in Usa se non l’inizio della fine: consegnarsi a capo chino nelle mani del nemico peggiore.

Chiaro è che la morte di Soleimani era più che voluta da Washington, dal “blocco sunnita” con al vertice i Paesi del Golfo, l’enclave con alla guida Riyad ma anche Doha, Israele e le sue terminazioni sparse in Medio Oriente, molto attente ad interporsi a qualsiasi cosa che sia ritenuta essere di ostacolo, per un sogno che non è mai stato riposto nel cassetto: la ‘Grande Israele’. Dietro la morte di Soleimani ci sono interessi, strategie e mire egemoniche, da consolidare o da far saltare. Ma andiamo al dunque: innanzitutto, per il tycoon americano e per i suoi suggeritori il capo di al-Quds, rappresentava una brutta gatta da pelare per riformulare un nuovo accordo con l’Iran. Una cosa non da poco, visto la diplomazia sconclusionata, parecchio raffazzonata ma del tutto modulata di Trump.

Modulata, perché l’assassinio del Generale, tratteggia la linea interventista statunitense secondo un obbiettivo(i) prestabilito, traducibile con l’appoggio diretto e senza mezzi termini alla politica riformatrice iraniana. A questo, dobbiamo aggiungere le difficoltà politiche che Trump deve affrontare in casa. L’impeachment, le prossime elezioni presidenziali che quasi sicuramente lo vedranno sconfitto, il cambio di rotta dei repubblicani e dei falchi che dimostrano di voler intraprendere un’altra strada che si discosti, apparentemente, dalla sovraesposizione di una figura ingombrante come quella di Trump. La guerra, prima di tutto è interna alle correnti che si contendono il potere negli Stati Uniti. Le inclinazioni del Congresso e le dichiarazioni di Nancy Pelosi contro il tycoon, il «Congresso non informato del raid» e la richiesta di «lasciare subito l’Iraq», sono indicative. Il vento è cambiato ma siamo ben consci di cosa questo possa significare, dopo le presidenziali americane: il passaggio, come abbiamo già scritto più volte, «da un “anti-interventismo” di facciata (l’avvento di Obama non ha precluso nessuna ingerenza in campo internazionale), alla volontà di voler tornare a mostrare i muscoli», in maniera più soft. Che vinca, oppure no, il nuovo volto scelto dai repubblicani o quello dei democratici.

La linea di Trump è quella della spettacolarizzazione, focalizzando l’attenzione dell’opinione pubblica su un problema e distogliendola da tutto il resto: trattasi, dell’enfatizzazione di una “politica” spoglia della sua dimensione, diventata un palco dello show business. Quella di Trump, ma lo è anche, se vogliamo, di un certo “sovranismo”, è la ricerca spasmodica dell’attualità di certe questioni e di un attualismo che non ha corrispondenza con il vero, ma solo con un immaginario infondato. La riprova è il continuo spostare il puntatore che si muove a piacimento dall’assassinio di Soleimani all’interesse immediato e mediato su altre tematiche, tipo il vertice con Kim Jong-un, tornando subito dopo ad occuparsi dell’Iraq, dei dazi americani e via discorrendo, è indicativo in tal senso.

Chi era Soleimani

Ma chi è stato ucciso perché in guerra, trattasi di questo, di una guerra, non era solo un militare d’alto rango. Era un attento stratega, un conoscitore delle dinamiche in Medio Oriente. Un uomo che padroneggiava la politica come il momento esatto per premere il grilletto. Certo, non un santo e tanto meno un martire. Piuttosto, era indubbiamente un uomo che è diventato un eroe, in quanto libero di decidere il proprio destino, legato indissolubilmente a quello del suo popolo. Ma questo impone di leggere gli accadimenti a mente sgombra: a tradire il Generale e tra coloro che festeggiano, troviamo anche la spregiudicata classe dirigente politica e molto variegata di Riyadh, quella che siede nelle cancellerie occidentali ma anche quella che dice di essere all’opposizione. Ora se volete, cosa che non ci riguarda, siete liberi di sgranare il vostro rosario e di invitare alla preghiera. Punto. A tal riguardo, conviene leggere le dichiarazioni sconcertanti di Salvini che non sono una novità, quelle distensive e quelle furbette “da un colpo alla botte ed uno al cerchio” del resto della politica italiana, in perfetto stile democristiano. Peccato solo che i loro comportamenti, siano in linea con l’esatto contrario di quello che dicono, prostrandosi appena possibile al tycoon e, come abbiamo visto, anche a chi gli succederà. Ma questa ormai è una prassi. 

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Francesco Marotta

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