Il caso/3. Il “nazionalismo” (caro Galli della Loggia) non nasce dalla Russia ma dal flop Ue

Le frecce tricolori a Naxos

La riedizione del volume Ira e Tempo. Saggio politico-psicologico di Peter Sloterdijk– già tradotto in Italia nel 2007 – ha spinto Ernesto Galli della Loggia nell’editoriale di ieri sul Corriere della Sera a condividere una serie di riflessioni sul nazionalismo e sul concetto di nazione.

Temi cari allo studioso che, già nel 1996, con La morte della patria. La crisi dell’idea di nazione tra Resistenza, antifascismo e Repubblica aveva stimolato un acceso dibattito sull’argomento limitato, in quell’occasione, al caso italiano. All’epoca, pur se «condivisibile nel suo assunto generale» la ricostruzione fornita da Galli della Loggia semplificava un po’ «troppo l’evoluzione politica, senza legarla alla più profonda e articolata cleavage tra élite e società di massa». Ma ora è proprio partendo da tale frattura che si analizza il concetto in una dimensione più ampia – cioè europea – di quanto fatto in quel libro edito da Laterza alla metà degli anni Novanta. 

E’ innegabile – come rileva l’editorialista – che nell’attuale contesto europeo sia rinvenibile una frattura sempre più profonda tra «una parte dotata di maggiori risorse», «orientata al nuovo», «psicologicamente e culturalmente cittadina del mondo» e «un’altra parte dotata di assai minori risorse», «legata ad un modo di pensare tradizionale» e «aderente al significato tramandato della gerarchia e dei ruoli sociali».

Per questa seconda parte di persone dunque l’idea di nazione diventa un vero e proprio «rifugio dal mondo» e dalle novità, «un valore sempre più sentito e apprezzato da chi di protezione ha costituzionalmente bisogno». Ne consegue il diffondersi di un “nuovo” nazionalismo che assume i contorni di un «rifugio culturale» e di una «posizione polemica» volta «contro il nuovo, contro la modernità». E qua iniziano i problemi. 

Perché dietro a tutto ciò, secondo Galli della Loggia, ci sarebbe la solita Destra brutta e cattiva – ieri fascista oggi illiberale – pronta a far leva proprio su tali bisogni per trasformare in consenso elettorale l’ira delle classi sociali più disagiate della società come accaduto in molti Paesi europei: dalla Spagna alla Svezia, dalla Germania all’Ungheria. Il punto di riferimento di questa marcia del consenso 2.0 sarebbe «una grande potenza reazionaria»: la Russia di Putin. 

Essa e il “nuovo” nazionalismo rappresenterebbero dunque i fattori di successo della Destra in Europa. A noi pare invece molto più probabile che il prodromo principale di tali affermazioni nelle tornate elettorali non sia rinvenibile oltre il Don ma nell’Unione Europea vero elemento di novità rispetto alla geopolitica del primo dopoguerra, epicentro e causa del malcontento diffusosi, da Maastricht in poi, nel Vecchio Continente. 

Al contempo, non convince l’individuazione di questo “nuovo” nazionalismo come secondo fattore di successo della Destra e ciò in ordine a due motivi: in primis poiché il nazionalismo è «anzitutto un principio politico che sostiene che l’unità nazionale e l’unità politica dovrebbero essere perfettamente coincidenti» dato ormai acquisito in tutta Europa e oltre. In secondo luogo perché ciò che emerge nei Paesi europei in queste ultime tornate elettorali è il sovranismo: un concetto ben diverso dal nazionalismo inteso in senso classico essendo il primo una reazione politica, non ideale che mira alla difesa o alla riconquista della sovranità nazionale in antitesi alle dinamiche della globalizzazione e in contrapposizione alle politiche di un soggetto sovranazionale come è, per l’appunto l’Ue.

Il nazionalismo era ed è un sentimento di attaccamento alla propria nazione, una fede secolarizzata che penetra nei più remoti angoli dell’esistenza e, come tale, presuppone un percorso culturale non contingente per chi lo prova. Rispetto ad esso, dunque, il sovranismo è qualcosa di molto più mutevole che assume caratteristiche diverse a seconda delle differenti aree geopolitiche legato, com’è, alla diversità di valutazioni sul ruolo delle istituzioni europee rispetto a quelle nazionali, soprattutto in materia di politiche monetarie e commerciali. 

Ma non è solo l’uso del nazionalismo come sinonimo di sovranismo – sulle cui insite imprecisioni aveva già ammonito Sergio Romano qualche mese fa – che lo scritto suscita i dubbi fin qui esternati. Anche la convinzione che questo “nuovo” nazionalismo rappresenti una «posizione polemica contro la modernità» risente di pregiudiziali visioni d’insieme che rimandano alla tradizionale manichea convinzione che tutto ciò che riguardi la Destra sia volto al passato, sia e debba essere paura o rifiuto di ciò che è nuovo. E non si possa mai, almeno per una volta, considerare che quando la gente vota a Destra lo fa perché cerca un «senso più energico della vita nazionale che si vuole tutta più coerente, più solidale, più volitiva, più fortemente protesa verso l’avvenire». Lo scriveva Gioacchino Volpe ed era la sua definizione di nazionalismo. Ed erano altri tempi, altri autori: ed a confrontarli con quelli odierni, in tal senso, un po’ di nostalgia del passato sorge spontanea.    

  1.   G. Aliberti, La resa di Cavour. Il carattere nazionale italiano tra mito e cronaca (1820-1976), Firenze, Le Monnier, 2000, p. 247.
  2. Cfr., E. Gellner, Nazioni e nazionalismo, Roma, Editori Riuniti, 1992. Sul punto anche G. Gentile, Origini e dottrina del Fascismo, Roma, Libreria del Littorio, 1934, p. 23.

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Roberto Bonuglia

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