Politica. “Anatomia del populismo” (a cura di M.Tarchi): uno studio oltre le demonizzazioni

Anatomia del populismo, curato per Diana da Marco Tarchi

La scena politica mondiale è alle prese con un rompicapo inestricabile. Nelle tribune politiche, nei programmi televisivi e radiofonici, negli studi politologici, in quelli delle scienze politiche e nella nutrita schiera degli accademici interessati alla fenomenologia del populismo, è in corso, ormai, da decenni una diatriba senza precedenti su cosa sia il populismo. Ed ecco allora far capolino una miriade di tesi e contro-tesi sulle sue origini, sul ruolo che ha avuto nei processi di trasformazione della politica e nelle società, con una certa attenzione agli sviluppi futuri. Tutto è lecito, comprese le demonizzazioni, le semplificazioni, l’interpretazione falsata del fenomeno che con le idee ed il pensiero non hanno nulla da spartire. Insomma, un guazzabuglio indefinito di accuse e lodi, persino di fantasticherie e congetture malevoli che sembrano quasi voler schernire l’intelligenza umana.

Ma per fortuna c’è ancora chi si dedica a studi scientifici ad ampio respiro. Indubbiamente, questo è il caso di Marco Tarchi, politologo di fama mondiale, docente italiano e professore ordinario presso la Facoltà di Scienze Politiche di Firenze dove insegna Scienza Politica, comunicazione politica, Analisi e Teoria politica. Diana Edizioni ha da poco pubblicato la sua “Anatomia del Populismo”, una antologia tratta dalla Rivista “Trasgressioni”. Quello del professor Tarchi, è un lavoro importante che contempla gli scritti di innumerevoli personalità della comunità scientifica. Una lunga e interessante trattazione sulle caratteristiche del populismo, dagli albori ai giorni nostri, mistificazioni e verità, ossessioni e approssimazioni, capacità deduttive e intuizioni inaspettate. Un insieme di studi comparati e ricerche sul “mostro” da sbattere in prima pagina e sulle TV di mezzo mondo. Logicamente, neppure a dirlo, senza prendersi la briga di comprendere cosa sia realmente.

Citando solo alcuni degli studiosi, campeggiano i nomi noti della politologia, della filosofia, della ricerca e dell’educazione, quali sono Margaret Canovan, Flavio Capponi, Yves Mény, Yannis Papadopoulos, Pierre-Andrè Taguieff e tanti altri ancora. Ma il filo conduttore di questo scritto importante, è il seguente: che cos’è il populismo? A nostro avviso, la risposta giunge proprio da Tarchi. Precisamente, nel suo saggio intitolato “Italia populista. Dal qualunquismo a Beppe Grillo”, edito da Il Mulino: «la mentalità che individua il popolo come una totalità organica artificiosamente divisa da forze ostili, gli attribuisce naturali qualità etiche, ne contrappone il realismo, la laboriosità e l’integrità all’ipocrisia, all’inefficienza e alla corruzione delle oligarchie politiche, economiche, sociali e culturali e ne rivendica il primato come fonte di legittimazione del potere, al di sopra di ogni forma di rappresentanza e di mediazione». Una definizione appropriata, lucida e corrispondente al vero.

La nostra opinione, coincide con il credere che il populismo non sia un’ideologia, tanto meno un sottotipo della destra o della sinistra radicali. Di conseguenza, per far luce su l’annosa diatriba, crediamo che siano deleterie le classificazioni sommarie, le quali prendono vita anche a causa dell’appropriazione del lessico, del tipo di comunicazione e degli argomenti trattati dai movimenti e partiti populisti. È un dato di fatto che l’espertologia dei partiti classici ne voglia cavalcare l’onda, non curanti di essere sempre più soggetti all’ottimizzazione delle strategie di marketing associate alla politica. Questo è il caso di alcuni partiti di destra, di sinistra e di centro. Ma lo è diventato anche per i “sovranismi” in auge, intenti a rielaborare alla loro maniera, le nozioni che riguardano la «Sovranità». 

Scorgiamo in alcuni di loro, un rimescololamento del significato, sulla falsa riga di uno slogan pubblicitario. Trattasi di una riformulazione del messaggio politico dei partiti classici che individuiamo altrettanto nei movimenti sovranisti, quasi giunta al termine, quale fosse un modello di autovettura, un prodotto commerciale. Spesso la «Sovranità» è ridotta al rango di una semplice rivendicazione sommaria sulla falsa riga di un “identitarismo” sciovinistico, guardandosi bene dal parlare dell’identità di un popolo alla mercé anch’essa della logica del profitto e delle leggi di mercato che attanagliano l’economia e la vita reale. 

Una comunicazione politica da “copia e incolla” dei movimenti populisti, pur non essendo la stessa cosa, suggerita da consiglieri della partiticizzazione del sistema politico, privi di qualsivoglia volontà analitica. Diciamo pure che adottare un metro di giudizio, sistematico e per nulla empirico sulla questione, non è di aiuto: tanto meno se è per nulla empirico, nel senso metapolitico e filosofico del termine, che per costoro risulta essere un disastro se non di impiccio. Quindi, il populismo viene visto solo come un antagonista che sottrae le rendite ed i privilegi del professionalissimo della politica. Un pericolo pubblico per comodità e interesse, che viene trattato secondo la logica del “politicamente corretto”. Vale a dire, la stessa dell’opinionismo mass-mediatico che impera un po’ ovunque, difendendo l’esigenza di una maggiore «Sovranità», intesa nel modo in cui si propone un argomento del facile consenso, escludendone a priori la sostanza. 

Inoltre, permane la convinzione di riuscire a catalogare e circoscrivere il populismo, facendo passare chi è alla guida dei movimenti ma, anche i loro iscritti e simpatizzanti, alla stregua di “incapaci”, razzisti, criptofascisti e di essere formati da un nugolo di ignoranti cultori del ventennio, quando nulla c’entrano con questo tipo di intendere la politica. Tant’è che basterebbe chiedere a questi “illustri” esperti di politica, cosa pensino del populismo, spesso erroneamente identificato come un fenomeno recente, quando in realtà è riscontrabile molto prima delle rivolte contadine e urbane del Medioevo! 

A dar man forte a queste tesi strampalate, troviamo i cerimonieri dell’informazione che si arrabattano per non far sapere che esistono varie forme di populismo. Le quali, veicolano un messaggio politico a seconda dei luoghi in cui sorgono, secondo la struttura della società e del malcontento delle popolazioni, pur avendo un unico comun divisore. In questa antologia, appare più che nitido e trasparente. Il discorso verte sulla comunità di appartenenza e di destino, del popolo come forma omogenea, «una collettività in tutto e per tutto superiore agli individui che la compongono» che nulla ha a che fare con il sistema degli scambi politico-elettorali. 

Nella visione populista, ognuno può «conferire un senso pienamente soddisfacente alle proprie azioni e sentirsi realizzati», senza alcun tipo di mediazione. Possiamo aggiungere che tutto questo, rientra nell’attribuire all’individualismo e all’utilitarismo, alla base delle società occidentali, una accezione negativa se non deleteria. Come scrive giustamente Tarchi, citando Paul Taggart, la “mentalità populista” «trova nella democrazia un fertile terreno di crescita» e, dove la rappresentatività detta le sue condizioni, il «populismo è onnipresente come potenziale movimento o come sistema di idee adatto a essere propugnato dai movimenti politici». Quindi, la formula che recita uno scontro tra élite e popolo, quelli in basso contro quelli in alto, è in buona parte veritiera ma non esaustiva. 

In altre parole, prendendo in prestito gli assunti di Guy Hermet a proposito del nazionalismo boulangista – sec. XIX; dal nome del generale Boulanger-, pensiamo che non sbagli affatto quando asserisce che pur avendo avuto una «tonalità autoritaria e militarista», eredità de l’Ecole Spéciale Militaire de Saint-Cyr e del servizio militare in Algeria, Italia, Cocincina e della guerra franco-prussiana – 19 luglio 1870-10 maggio 1871- , «quell’orientamento va di pari passo con un progetto democratico eterodosso, che non verrà mai meno nelle correnti, tutto sommato più orientate alla logica del rassemblement che autenticamente populiste, che gli succederanno in Francia e altrove». Un esempio su tutti è il gollismo delle origini ma anche le successive battaglie contro la democrazia parlamentare e della rappresentatività in Francia. 

Il populismo è un fenomeno di vasta portata, da Oriente ad Occidente, dal People’s Party ai narodniky russi della metà del XIX secolo, riscontrabile anche in Sud-America, nella Penisola scandinava, passando nel corso dei secoli persino dalle isole oceaniche e del Pacifico. Ma non solo… La matrice che unisce, come abbiamo detto e con tutte le doverose distinzioni del caso, è «l’appello al popolo» sotto forma di ribellione alle ingiustizie, presente nei regimi di tipo totalitario monarchico, repubblicano, democratico, in quelli della postmodernità, della social-democrazia e della liberal-democrazia. 

Insomma, prendono in prestito «le tematiche ideologiche della destra -nazionalismo- e della sinistra -socialismo- nel contesto di un opportunismo pragmatico che mira a calmierare le diverse proteste senza preoccuparsi della coerenza»? Diciamo che quando non si fa, della dicotomia destra/sinistra un dogma, emergono le personalità del populismo e le sue argomentazioni molto vicine alla democrazia diretta, di stampo socialista -l’impronta di sinistra e quella progressista sono tutt’altra cosa- e della democrazia radicale, parecchio lontane dall’idea liberale di democrazia.

Per quello che riguarda l’Europa, è possibile collocare l’emergere del «nuovo populismo» dopo il crollo dell’Unione Sovietica, nel 1991. La sinistra non è stata più in grado, ma questa non è una novità, di porre una critica serrata all’economia di mercato e al capitalismo. La teoria di Dominique Reynié, è improntata sul pensare che «i partiti populisti europei occupano oggi il posto lasciato dai partiti comunisti e da tutte le varianti di una sinistra anticapitalista», senza tener presente di un piccolo particolare. Le peculiarità della critica al capitalismo, non sono una prerogativa della sinistra, anzi. Il voler dare a tutti i costi una connotazione specifica, qualunque essa sia, risulta essere un esercizio miope e tendenzioso. 

Basti pensare alle elaborazioni di Silvio Gesell, fondatore della Freiwirtschaft, anarchico dell’«economia libera» che ideò una moneta svincolata dal controllo degli stati e dei governi; la Rivoluzione Conservatrice Tedesca che criticò aspramente il progresso e il capitalismo; il filosofo, sociologo ed economista Othmar Spann, prodigo nel porre all’attenzione i problemi derivanti dall’ordinamento monetario e del capitalismo; il poeta Ezra Pound, contro l’usura; Aleksandr Solženicyn che mise in guardia sul pericolo delle moderne tirannie, l’utilitarismo e la contiguità tra capitalismo e comunismo; l’italiano Giovanni Papini che nel suo “Il libro nero – Nuovo diario di Gog”, intuì le sorti del destino dell’uomo, delle sventure causate dalla società capitalistica; Alain de Benoist, spesso ritenuto essere di destra dagli ambienti di sinistra e dagli sciuscià impregnati con il potere di turno, pur non occupandosi di politica, da sempre indaffarato nell’osservare le storture della mondializzazione, della globalizzazione, del liberal-progressismo, dal capitalismo de l’homo oeconomicus di Adam Smith, etc.

La vox populi invocata dal populismo, così come l’ha descritta Margaret Canovan fa «appello, al di là delle ossificate istituzioni, al popolo vivo». Rivolgendosi, direttamente a quel tipo di istituzionalizzazione che ha invaso persino la giustizia e il diritto, la logica moderna del «dover-essere» raccontataci da Max Weber, dove l’equità fra le cose e gli uomini, risulta essere un requisito ad appannaggio di un iper-permissivismo e di un ultra moralismo esasperati. Ad essere presa di mira è quella «formalità legale» che sbarra la strada al senso di giustizia e della legalità, diventati «una lettera morta». 

Ma discorrendo su come debba essere la democrazia, è proprio M. Canovan a commettere un errore di valutazione. Quando scrive che «necessita di un sistema di istituzioni amministrative e coercitive», dimostra di avere lasciato indietro qualche nozione sulla mentalità populista. La quale, reclama l’esatto contrario: il trionfo della democrazia partecipativa. Questo lo si evince in un passaggio del capitolo intitolato “Il populismo come l’ombra della democrazia”, in cui afferma una cosa inesatta a proposito dei democratici radicali. Che a suo dire «hanno spesso rilevato l’abisso esistente fra Stato e popolo -perché, non è una verità ineluttabile? -, ma hanno pensato che avrebbe potuto essere colmato rendendo le istituzioni statali più partecipative: questa è tuttavia un’illusione». Pensate un po’, cosa arriva a scrivere un’insegnante di Storia del pensiero politico.

Siamo invece d’accordo, sulle disamini interessanti della “normalizzazione” dei partiti e/o movimenti populisti, quando si trovano ad essere al governo e non più all’opposizione. Il caso del Movimento 5 Stelle e l’avvicinamento agli ex nemici giurati del PD, formando persino un governo assieme e presentandosi alle Elezioni Regionali in Umbria, lo dimostra ampiamente. La poca accortezza e il non saper tenere conto delle contromisure adottate dai «partiti politici, dopo lo shock iniziale», pronti a raddrizzare la loro politica con la conseguente perdita di una grande fetta dell’elettorato populista, è una certezza indiscutibile. Come ha fatto notare M.Canovan, quando «i populisti riescono a provocare un cambiamento nella struttura partitica», vedasi l’asse Lega-M5S, «essi abbandonano la loro caratteristica originaria», facendosi attraversare dalla macchina statale e dalla poca dimestichezza con l’apparato normativo. Facendosi assorbire, «diventando comuni politici di professione» e tradendo inevitabilmente, i propositi iniziali.

Questo è un argomento su cui torneremo presto, occupandoci anche in maniera più approfondita dei sovranismi. In conclusione, senza togliervi il piacere di scoprire le innumerevoli trattazioni di “Anatomia del Populismo”, consigliamo di soffermarsi attentamente sull’ottima disamina di Flavio Capponi, “Populismo, leadership e carisma”, a pagina 259. Una delle relazioni più interessanti sul «fondamento principale della leadership populista (e del suo potere) nel carisma», pubblicata negli ultimi anni. 

Ad essere analizzati minuziosamente sono i concetti di carisma, autorità e leadership. Per ciò che riguarda il populismo, scrive Capponi, «non si riferisce al capo solo come incarnazione dell’autorità» come molti pensano ma bensì a «colui che esprime attraverso la sua persona i valori di cui il “popolo” è portatore», con il rischio di «incorrere nell’errore di mostrarsi fatto di un’altra pasta all’uomo comune». L’arringa di Grillo alla festa dei dieci anni del Movimento 5 Stelle, può dire molto. La consacrazione dell’alleanza con il PD, ricorderete il suo “Basta piagnistei, siamo cambiati”, in sostanza dando dei “retrogradi” ai presenti e provando a mettere in secondo piano la vecchia insofferenza per la partitocrazia, si è dimostrata essere una mossa sbagliata.

Flavio Capponi è Riuscito perfettamente ad illustrare il panorama italiano, realizzando una ricognizione dettagliata anche dei “partiti carismatici”, dei “partiti azienda” come quello di Berlusconi, in cui spiccano la «professionalizzazione delle competenze» nonché «la razionalità rispetto allo scopo», per giungere infine ad una conclusione ineluttabile: è bene non creare «una connessione tra leadership populista e l’autorità carismatica». Insomma, ancora una volta riecheggia l’errore che fanno molti nel giudicare il populismo, associandolo al carisma, «due fenomeni che, tanto sul piano analitico quanto su quello empirico, vanno tenuti distinti». La motivazione è semplice: nei partiti populisti, «prevale il contatto diretto tra leader e seguaci». 

Un dato di fatto che riguarda non solo il populismo politico ma tutta le sue raffigurazioni.

In una “Anatomia del Populismo” come non l’avete mai letta. 

*Antologia del Populismo  di Marco Tarchi (Diana Edizioni, Collana Matrici, 19/09/2019 – Ppgg. 368, euro 19)

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Francesco Marotta

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