Cinema (di P.Buttafuoco). Joker il Titano (senza rivoluzione) tra danza e morte

Joker
Joker

Finisce con una scena da “oggi le comiche”, Joker.

Quel pagliaccio – Charlot inseguito dall’infermiere del manicomio – è Prometeo.

Porta la vendetta in dote agli ultimi di Gotham City, consuma il rito della distruzione/rigenerazione e fa il sovranista di se stesso.

Strappa il privilegio della sazietà all’élite.

Joker altro non è che il Jolly delle carte da poker: quello che si stampa il sorriso in faccia col sangue delle gengive spaccate ed è la variabile impazzita che incendia la città per consegnare agli uomini il fuoco del populismo.

È un prodotto pop, Joker.

Dilaga come una moda tutta quella morte. È un concetto inconsciamente ricavato dal Leopardi delle Operette Morali, e “Il Dialogo della Morte e la Moda” è infatti ogni cambio scena. Uno sbotto di violenza che Joker sa trovarsi tra le dita: in un cartoccio con dentro una pistola, o un paio di forbici per tranciare una giugulare. E il film di Todd Phillips tocca, infatti, la vena viva della disperazione delle donne e degli uomini come fosse Eschilo a dettare il ciak e non la matita che fabbricherà le gesta di Batman.

Charles Allan Gilbert – All Is Vanity (1892)

Al pagliaccio assassino nessuno, appunto, potrà mai dare il marchio di nemico pubblico numero Uno. Beniamino qual è dei pendolari, dei disoccupati e dei poveri sfigati come tanti, Joker, per ogni “stronzo” cui lui tira le cuoia, assomma il totale di una rabbia da troppo tempo repressa. Ne fa schiuma di un lavacro sgargiante delle sue sparatorie, un sabba ricco di colori e prodigo di gioia per un gioco collettivo – ammazza il ricco! – dove la leva che solleva la città non è la lotta di classe, bensì la ruota del cosmo, l’eterno riversarsi del rancore nel dolore senza scampo.

Joker – un reietto tra i tanti, un comico fallito – è il Titano della resa dei conti.

Non è legato alla roccia del Tartaro, Joker, piuttosto è disteso sul cofano ammaccato della macchina della polizia da cui riemerge per far ricrescere – evadendo dall’arresto – non il fegato, ma la maschera su cui, con due ditate di sangue, appunto, rinnova e riscatta la vita.

Ebbene sì, è il populista nell’epoca compiuta della modernità quel ragazzo che assiste la propria madre malata.

Lei lo chiama “Happy” perché deve portare il sorriso e il buonumore al mondo.

Lui invece trova conforto nelle allucinazioni cui elemosinare l’illusione di un amore e la rivelazione del proprio talento in uno show televisivo di grande successo.

Divinità dell’assoluto pubblico come nessuno, Joker non somiglia alle sue caricature dell’ultima ora, meno che mai alle comparse della politica in cerca di archetipi post-ideologici perché se è vero quello che si vede nel film – lo scavo straziante in quelle carni irrorate di mascara, ombretto e rossetti – l’unico assoluto male capace di scendere negli inferi per portare a termine il kali-yuga atteso da ogni singola esistenza costretta a vivere il disagio è l’eroe, non il “sindaco” o “cittadino” che dir si voglia.

Joker imprevedibile eroe di un sottoproletariato per cui nessuna rivoluzione è mai stata prevista; Joker prototipo dell’uomo che deve rassegnarsi a non avere il talento necessario per realizzare il suo sogno; Joker esempio di un’appartenenza sociale talmente disagiata da far prevedere l’inevitabile parabola discendente; Joker lo psicopatico in cura dai servizi sociali, dipendente dai farmaci che ogni settimana devono essergli prescritti e senza i quali è solo una vittima dei tagli alla spesa pubblica è il Prometeo di un Tartaro orbo di luce.

La prima volta che Joker, interpretato da Joaquin Phoenix, ammazza tre signori se ne corre a casa e lì, in una stanza pitturata di angoscia, rimirandosi – smagrito, storto, intossicato di sigarette e medicine – gira su se stesso.

I tre cui ha sparato gettavano patatine fritte a una ragazza impaurita seduta davanti a loro nel metrò. Le lanciavano le briciole come si fa con le scimmie allo zoo, con le noccioline. Joker assiste alla scena e il destino lo obbliga al passo doble di moda e morte: si svela nella danza di Shiva.

Nella biacca candida su cui Joker disegna gli occhi e il sorriso del clown lascia scivolare una lacrima: quel se stesso bambino legato a un calorifero, abusato dal compagno della madre e segnato per sempre da questa infanzia terribile dove gli venne rubato il pianto, per averne – come stigma – il sorriso. Due ditate di sangue. (dal Fatto quotidiano)

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