Il caso. La Nazionale dei magliari gioca in verde? Così avete rotto (definitivamente) il c…alcio

Caro direttore, mi hai chiesto di guardare al bicchiere mezzo pieno del calcio nostrano. Ci ho provato. E, ancora furioso per il trattamento indegno che è stato riservato a Mario Mandzukic, ho visto il talento di Sensi, consacrato dal ritorno in Italia di Antonio Conte, uno che divide, che o si ama o si odia. E io lo amo.

Ci ho provato, ti dicevo. Ieri, però, sono piombato nell’insicurezza. Hai visto? La Nazionale giocherà contro la Grecia in maglia verde. E verde, di bile, sono diventato anch’io. Confortato da milioni e milioni di italiani. Non è questione cromatica: non è che se avesse giocato in granata mi sarei sentito meglio. È la ragione che ha smosso la Federazione a scegliere la tinta pisello: il business.

Caro direttore, mi dirai che sono monotematico e che siamo abbastanza grandi per capire che se senza soldi non si cantano messe, perché le partite di pallone dovrebbero giocarsi senza milioni? È la globalizzazione, me lo hai detto un sacco di volte. O mangi questa minestra o ti butti dalla finestra. Non ci piace ma il mondo gira così. Tutto è finalizzato al denaro, ma proprio tutto. Quante volte ce lo siamo detti, tra noi, commentando i toni del racconto sportivo, anzi della stramaledetta “narrazione”, dello storytelling che, letteralmente, denuncia la sua natura di raccontare storie, talore fole.

Lo abbiamo visto e ascoltato insieme, lo abbiamo anche scritto qui su Barbadillo. Dare del fenomeno a un Suso qualsiasi, spinge il Milan a spendere milioni per lui. Un acquisto del genere, debitamente presentato: “ecco il nuovo X (mettete una bandiera del passato a caso, è uguale), induce i tifosi a sottoscrivere abbonamenti allo stadio e alla tv. A comprare le magliette. Poi inizia il campionato, il preteso fenomeno fa disperare e tutto ricomincia da capo, altro giro altra corsa: arriva Calhanoglu.

Ecco, allora ti faccio la mia proposta: chiediamo un po’ di grana anche noi per scrivere di futbol. Perché solo se mi arrivasse un bel bonifico dalla Federazione, soltanto se qualche sponsor pesantuccio mi offrisse un contrattino in qualche ufficetto, potrei dire che la maglia verde della Nazionale è bella. Hanno avuto persino l’ardire di chiamarla “rinascimento”. Come se Barella, Donnarumma, Sensi e qualche riserva della Juventus avessero già dimostrato di essere all’altezza del blasone di chi la maglia (azzurra!) l’ha vestita prima di loro. Una bugia bella e buona, sempre la solita. E non v’azzardate a mettere in mezzo la Firenze medicea che ci sarebbe da spolparvi vivi.

Diranno che è la terza maglia. E diremo loro che di schifezze ne abbiamo già viste abbastanza. A cominciare dal cafonissimo camouflage del Napoli che ha avuto, qualche tempo fa, l’ardire di sostituire il poco attraente Ciuccio con un più intrigante felino dentato. A finire alla Juventus biancorossa, un obbrobrio totale: come se la prima maglia a quarti non facesse già abbastanza terrore di per sé. Dicono, però, che quelle maglie attraggono i clienti asiatici, americani, i tifosi all’estero. E allora perché non se ne vanno a giocare in Cina? Ops, lo fanno già d’estate. E già che ci sono, installano lì le loro bancarelle: un affare da magliari, ecco cos’è diventato il calcio parafrasando, a metà, lo sfogo di Malesani.

Credo, direttore, che tu sappia abbastanza di me per non intrupparmi tra i passatisti, i  nostalgici a tutti i costi, tra quelli che rivendono una rovesciata della C2 di trent’anni fa come una magia di Maradona, di Messi e di CR7. “Chissà oggi quanto varrebbe Pippo Franco che faceva i gol con l’Ardeatina Superiore, altro che Ibrahimovic”.

Mai stato di quelli. Eppure li ho sempre rispettati nel loro disagio di fronte a questo (ex?) sport che è pure il mio, di fronte a un chiacchiericcio continuo e a tutto finalizzato tranne che allo sport e che non dà più alcun punto di riferimento che non sia dentro l’epifania ragionieristica della divina Plusvalenza. Eupalla è in pensione.

Il peggio, caro direttore, è che tutto ciò non lo puoi dire senza passare per un pericoloso agitatore, un delinquente, un criminale.

Se dici che il calcio moderno non ti piace, ecco che ti denunciano: ultras violento colluso con la malavita molisana. Se dici che la tv esagera violando persino gli spogliatoi, ecco che ti attaccano: antichista legato al patriarcato dell’ascella sudata e della radiolina. Se fischi tizio, caio o sempronio puoi essere: razzista, sessista, buonista, fascista, comunista, integralista, zonista. Se lo stadio di proprietà ti pare una cazzata da speculatori alla Dino Risi con la coscienza sciacquata nella spilletta di Greta sei un nemico del futuro, uno che non vede al di là del proprio naso, un analfabeta funzionale che è contro il progresso e contro il suo stesso club.

Com’è brutto, caro direttore, il mondo scintillante e asfissiante costruito da quelle che Giovanni Arpino, genio assoluto, chiamò Belle Gioie. Il pallone è metafora della nostra società: e allora mi viene da chiedermi, ma chi ce lo fa fare a stare appresso al ronzio quotidiano che ci opprime ogni ora del giorno e della notte di emerite stronzate spacciate per i più alti ideali?

Dirai, caro direttore: è una precisa strategia di marketing anche quella. Il partito liquido come la società di calcio ha bisogno di engagement, di mostrare che ha seguaci e fedeli pronti per lei a tutt’osare. Che se la globalizzazione toglie punti di riferimento, ecco che arriva la tua famiglia aziendale (sportiva o meno) a bombardarti d’amore.

Perché il club è, sempre, una famiglia. Come la banca, il supermercato. Tante famiglie. Tutti che mi vogliono bene. Ma non mi pare che mia madre o mia nonna o mia zia m’abbiano mai chiesto di comprare ciarpame da loro prodotto chissà dove per dimostrarle quanto bene gli volessi.

@barbadilloit

Alemao

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