L’intervista (di A. Di Mauro). Ivo Germano: “Totti, il modello inglese (sfigurato) e il calcio business che ha stufato”

Francesco Totti

Passi lo sbarco in Sicilia organizzato col supporto dell’onorata società isolana; passi l’arroganza da “pistoleri del mondo”; passino il Vietnam e le ingerenze in Medio Oriente con relativi bombardamenti a fronte di arsenali chimici inesistenti; passi il sostegno alle Primavere Arabe che hanno contribuito a far esplodere il fenomeno delle migrazioni di massa verso l’Europa; passi persino il flirt coi terroristi dell’Isis in chiave antisiriana; passino i Sigonella, il Cermis, il ketchup sugli spaghetti e le altre innumerevoli porcate nelle quali gli americani si sono prodotti nel corso della loro storia, ma per favore mettessero giù le mani almeno dalla nostra Roma. Quella del pallone e delle bandiere, naturalmente. Quella di Totti e di De Rossi, ché sulla Roma del Palazzo le mani ce le hanno già messe dai tempi di Yalta.

Cosa c’entrano gli americani con la Roma pallonara? Semplice: per chi non lo sapesse, da qualche anno a questa parte, il centro nevralgico del club non è più Trigoria, ma Boston. E il dominus della società è un certo James Pallotta che il mese scorso ha compiuto l’ultimo atto del processo di “deromanizzazione” della squadra, costringendo di fatto alle dimissioni da dirigente Francesco Totti, leggendario capitano dei giallorossi e ultima bandiera di un calcio che non c’èpiù. Il tutto dopo aver liquidato qualche settimana prima il suo erede sul campo, Daniele De Rossi, anche lui romano e romanista.

Semplici bagatelle  da bar sport? Manco per niente. La questione è assolutamente metacalcistica e investe due contrapposte visioni dello sport e più in generale della vita.

Da una parte c’è chi ancora crede al valore di una bandiera. All’identità, alla passione disinteressata– fatta anche di sano c ampanilismo competitivo – alla fedeltà a un’idea e a dei colori che hanno nutrito i sogni da bambino. Dall’altra chi invece vede tutto questo come un fastidioso ostacolo al raggiungimento dell’unico vero obiettivo che conta: il profitto.

Una sorta di partita esiziale che vede schierate le ultime bandiere che garriscono al vento della passione e dell’orgoglio di  un’apparteneza contro le logiche finanziare sensibili solo alle oscillazioni di borsa, che riecheggiano un mondialismo apolide dove ogni specificità sfuma divorata dal magma indistinto del villaggio globale.

Come finirà? Tra il serio e il faceto azzardiamo qualche previsione con l’ausilio del professor Ivo Germano, giornalista e scrittore particolarmente sensibile a questi temi.

 

Allora professore, ci volevano gli americani a Roma per ammainare l’ultima bandiera di un calcio d’altri tempi?

In verità non c’era alcun bisogno che si scomodassero gli americani per riaffermare un processo di trasformazione del calcio che è sotto gli occhi di tutti. Gli americani stanno semplicemente cercando di portare a Roma ciò che i cinesi hanno portato a Milano, ossia un modello di business legato al calcio che deve far fronte ai consigli di amministrazione e agli azionisti più che ai tifosi dei vari club. Esattamente ciò che già da tempo accade in Premier League dove ormai è difficile trovare un proprietario di club per così dire “endogeno”. Di sicuro però possiamo dire che il braccio di ferro tra la Roma americana di Pallotta e quella delle bandiere di Totti ha avuto sicuramente un valore paradigmatico, per una ragione molto semplice: quella capitolina, attualmente, era l’unica squadra tra i grossi club europei ad aver conservato due grandi architravi simbolici rappresentati da Totti e De Rossi. Una ricchezza che per una certa idea di calcio globale contemporaneo è anche il limite più grande. Queste due “figurone” della Roma, Totti e De Rossi, in realtà altro non erano che due archetipi del calcio del tutto incompatibili con le logiche di una gestione marketing oriented dei club. Il modello americano non avrebbe mai potuto tollerare elementi,dal proprio punto di vista non razionali, di sentimentalismo calcistico. La logica è molto semplice: io ho un grande campione. Lo pago finché mi è utile, dopodiché, come in qualsiasi rapporto di lavoro, niente di personale ma le strade si separano.

 

Non trovi che proprio questa scissione tra la componente sentimentale e irrazionale che da sempre caratterizza il gioco del calcio e le fredde logiche di marketing dei club che oggi lo amministrano possa rivelarsi fatale per la sopravvivenza di questo sport?

Sicuramente. E infatti penso che proprio la vicenda Pallotta-Totti segni un punto di non ritorno irreversibile in questo senso. Se si prosegue su questa strada nel calcio si compirà completamente la profezia di Rollerball, quel vecchio film in cui dei gladiatori correvano lungo un velodromo puntando all’eliminazione l’uno dell’altro nel nome dello showbiz. Tutto sarà ricondotto a una forma di spettacolarizzazione di natura gladiatoria, per restare in tema di romanità, dove ciò che accade sul campo è molto meno importante di tutto ciò che c’è attorno e, soprattutto, dove il dopo (leggasi il gossip, i social, i selfie, il merchandising) conta molto più del prima e del durante.

 

Un po’ quello che sta accadendo nella politica…

Beh, il calcio in questo senso ha fatto da apripista. Non è un caso se un concetto che ormai è diventato essenziale nelle dinamiche politiche come lo storytelling sia stato per primo sperimentato proprio nel mondo del pallone. Siamo passati in meno di trent’anni dall’attesa della cronaca del lunedì sul giornale sportivo alle ventiquattr’ore di fuffa incessante delle pay-tv e delle radio.

Dalla comunicazione alla mediatizzazione, sullo sfondo di un mondo globalizzato dove tutto è commodity, ossia in buona sostanza merce.

 

Giochiamo a fare gli ingenui: siamo sicuri che il recupero dei valori antichi di un calcio sentimentale siano davvero del tutto incompatibili con le attuali logiche aziendali?

Del resto una “bandiera” in campo per un club dovrebbe rappresentare un asset non trascurabile. Non si potrebbe, in sostanza, cercare di salvare capra e cavoli rendendo vincolanti alcune disposizioni precise, come per esempio la valorizzazione dei vivai?

Si potrebbe. Magari copiando da quelli bravi che sono riusciti in un’operazione del genere. Per argomentare meglio la risposta provo a fare anche io l’ingenuo: come nascono le squadre inglesi indicate come modelli virtuosi un po’ da tutti? Ebbene nascono agli angoli dei quartieri della city e in piccoli borghi attorno ai due elementi fondamentali che sono il luogo – uno stadio di nuova costruzione dove la working class va a passare il proprio tempo libero – e la maglia che nessuno oserebbe mai mettere in discussione.

Il lunedì mattina,in Inghilterra, puoi tranquillamente imbatterti in un dirigente di banca che se ne sta dietro lo sportello con indosso la casacca ufficiale del club per cui fa il tifo. Da noi, invece, per presunzione e per l’arretratezza tipica dei parvenu, si è cercato di scimmiottare solo l’aspetto economico e finanziario (vedi l’ossessione per lo stadio di proprietà) senza rendersi conto che la grande rivoluzione inglese ha avuto una matrice culturale. Inebriati dai fumi di quella che potremmo chiamare una sorta di belle époque della globalizzazione ci siamo prodotti nella pantomima del peggio di quel modello.

 

La bomba scoppiata tra Trigoria e Boston potrebbe rappresentare una sorta di choc capace di favorire un cambiamento di rotta o quantomeno una riflessione?

Nelle stesse ore in cui Pallotta rispondeva, perché strattonato, a Francesco Totti, il nuovo proprietario della Fiorentina diceva “Chiesa non me lo vendo”.

Sarà un caso, ma siccome resto un inguaribile ottimista penso che questa vicenda possa far capire che un certo modo di gestire questo sport – questa orgasmaticità, questo dover sempre creare like – non solo disaffeziona, non solo delude, ma finisce per lasciare indifferenti.

Producendo solo apatia, passione triste e disincanto. Quando le società e gli addetti marketing registreranno la disaffezione della gente che preferirà orientarsi sulle serie minori, dove quello che conta torna ad essere ciò che accade sul rettangolo di gioco e non la giostra mediatica che ruota attorno, magari inizieranno a pensare a nuove soluzioni. Alcuni fenomeni che vanno in questa direzione possiamo osservarli già adesso: molti hanno già ricominciato a sentirsi le partite alla radio, rinunciando alla sbornia delle pay tv e aspettando che le trasmettessero in chiaro ad ore inenarrabili, riscoprendo così il gusto dell’attesa. Io personalmente ho amici tifosi del Bari che quando hanno visto la loro squadra retrocedere mi hanno detto: “Dio, come mi diverto adesso”. Perché il più grosso gradiente per recuperare è cadere. Ecco perché la vicenda di Roma può essere rigenerativa: il telus del calcio è fatto di passione e sentimento popolare. Totti e De Rossi hanno dimostrato che, se togli quel telus, sotto non rimane più niente.

E allora l’unica reazione possibile è farsi comunità intelligente e non solo reattiva. Non basta lo sfogo, ma è necessario impegnarsi a ricostruire questo sport dal basso, come dimostra l’esempio inglese. A quelle latitudini la passione per il calcio non è mai scemata.

*Da Candido di Luglio 2019

Alessio Di Mauro*

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