Libri (di G. Del Ninno). Nelle “Memorie di un rinnegato” di Mughini la scoperta della Nuova Destra

L’autobiografia è un genere letterario insidioso: è imparentato con il diario, da cui si distingue principalmente perché quest’ultimo, di regola, non è destinato al pubblico, ma ad esso si avvicina per il rischio dell’insincerità. Confessare a se stessi, prima che agli altri, errori, manchevolezze, difetti irrimediabili richiede un coraggio che non è di tutti. Di più: c’è il rischio di appiattire anche gli eventi della Storia con la maiuscola sulle vicende private di chi scrive; insomma, ce n’è abbastanza per far riflettere ben bene chi volesse affrontare una simile prova, sia di scrittura che di lettura.

 

Dopo aver letto e riletto questo libro di Giampiero Mughini, possiamo dire che l’autore non è caduto in nessuno di quei tranelli che abbiamo indicato, a partire dal riconoscimento degli errori commessi, riconoscimento che figura addirittura sulla quarta di copertina: ”Chi di noi non è stato abbagliato da una qualche sciocchezza durante la sua vita? Basta ammetterlo e farci i conti, in tutta lealtà verso quello che eri e verso quello che sei diventato”.

 

Con l’autoironia, che costituisce un ingrediente fondamentale della sua prosa, questa rivisitazione di un percorso esistenziale alla ricerca delle scelte sbagliate, viene condensata, fin dal titolo del libro, nel termine “rinnegato”. L’accusa infamante, che Mughini riprende con un sorriso amaro, gli fu rivolta da Marco Bellocchio davanti alla grande platea televisiva di “Ieri, Goggi e domani”: “Meglio aver partecipato a qui cortei che essere divenuto un rinnegato”, dove “quei cortei” erano quelli del 1° maggio 1969, “dentro quel nugolo di bandiere rosse, sotto i faccioni di Mao e Stalin che apparivano come due santoni venuti a portare il verbo sulla terra”.

 

D’altro canto, Mughini, in tutto il suo percorso esistenziale, è stato coerente con la sua visione liberale e libertaria del mondo, anche se inizialmente questa visione gli sembrava potesse essere declinata in chiave comunitaria, mentre il Giampiero della maturità la vive, io credo di poter dire, molto più in ambito privato, individuale. Molte di queste sue pagine sono dedicate alle vicende professionali, ai passaggi da una testata all’altra, ma anche da un’amicizia all’altra: per lui, come per tutti noi, ci sono stati incontri importanti e positivi e incontri deludenti; tuttavia, il carattere distintivo di queste delusioni spesso è stato rappresentato dall’intolleranza che ha connotato tanti ambienti di “quella” sinistra e, aggiungerei, anche di questa odierna.

 

Mughini ha sempre dimostrato il suo orrore per la violenza, anche nella forma della prevaricazione più o meno sottile: il graduale conseguimento di questa consapevolezza lo aveva portato fin dal 1987 ad uscire da quella tribù (è di quell’anno la pubblicazione di “Compagni addio”). Per chi, come me, ha frequentato altri ambienti e conosciuto persone il cui primo istinto era quello della difesa, sia intellettuale che fisica, in anni dove non c’era spazio per un confronto che non fosse fatto solo di negazioni, di ignoranza, di ostilità preconcetta, molti dei nomi evocati da Mughini rappresentano fantasmi di sconosciuti o di avversari di un’epoca superata e consegnata alla storia (piccola? Grande?).

 

Si può dire che ad ogni passaggio da un giornale all’altro, da una rivista all’altra fino agli approdi televisivi, Mughini scoprisse l’importanza delle persone, aldilà della loro collocazione politica e di ogni definizione ideologica: ed ecco squadernarsi, pagina dopo pagina, una galassia di leali o di sleali, di capaci o di incapaci, di ambiziosi o di modesti, di ipocriti o di sinceri, e così via. Lungo un tale cammino, il protagonista fa incontri inaspettati, che lo inducono anche ad una visione della Storia – stavolta sì, con la maiuscola – meno settaria e più obiettiva. Appartengono a questa fase saggi come “A via della Mercede c’era un razzista”, un libro scomodo, dedicato a Telesio Interlandi, direttore della scandalosa rivista “La difesa della razza”, e “Addio gran secolo dei nostri vent’anni”, forse il libro più bello e complesso del nostro Autore, che rivisita senza soggiacere a luoghi comuni e tabù i movimenti sociali e i regimi autoritari del Novecento.

 

La libertà di pensiero di Mughini doveva portarlo, agli albori degli anni 80 di quel secolo, a scoprire la piccola “galassia nera” degli intellettuali della “Nuova Destra” (fra i quali, chi scrive). L’occasione gli fu data dalla possibilità di girare per la Televisione pubblica un documentario dal titolo “Nero è bello”: da quegli incontri, ebbe la conferma che non tutto il bene, non tutto il male stavano l’uno di fronte all’altro; scoprì che si possono amare Baudelaire e Campana, Sam Peckinpah e Clint Eastwood, Platini e Falcao anche se si fa – si faceva – militanza intellettuale “a destra”.

 

Scoprì fra l’altro, Mughini, che quella cerchia di giovani (allora) costituiva una comunità, e non solo nelle occasioni pubbliche, come Campo Hobbit o i convegni della “Nuova Destra” italiana e francese, ma all’interno delle case – e delle famiglie – di ciascuno; scoprì che la voglia di cambiare il mondo continuava a serpeggiare sotterranea anche dopo la festosa esplosione del maggio francese (altro bel libro-testimonianza di Giampiero: “Era di maggio”), e lungo letti di fiumi carsici e con altri – sia pur “periferici”, rispetto alla cultura dominante – protagonisti. Certo, la tolleranza, di più: la comprensione, del “diverso”, sono ora sulla cresta, ora in fondo alle onde della storia, in un va e vieni che non esclude scontri e ostilità e perfino violenze; ma libri come questo di Giampiero Mughini – sì, un’autobiografia, ma non solo – fissano tappe della storia, privata e pubblica, paragonabili alle oasi del deserto.  Anche per questo, ti diciamo: grazie, Giampiero.

 

Giampiero Mughini – Memorie di un rinnegato – Bompiani, pp.190, Euro 16 (recensione di Giuseppe Del Ninno).

Giuseppe Del Ninno

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