Figurine. Glenn Stromberg, il condottiero vichingo che amò la Dea

Combatti per ciò in cui credi, e non per obbligo. Combatti per ciò che senti dentro al cuore!

(Leiji Matsumoto)

 

Ogni dea è tale se ha, al suo fianco, un paladino a lei devotissimo. Se il calcio della provincia italiana ha nell’Atalanta la sua Dea, questa ha in Glenn Peter Stromberg il suo cavaliere.

L’inizio, come racconta la sua storia, non fu certo dei più semplici. Veniva dalla Svezia, passando per il Portogallo. Aveva vinto una Coppa Uefa col Goteborg allenato da Sven Goran Eriksson, era arrivato a vestire la gloriosa casacca del Benfica.

In pratica, Glenn Stromberg era un calciatore importante che giocava modernissimo, si faceva la fascia cercando l’inserimento e giocando all’attacco partendo dal centrocampo. Finì, nel 1984, in una squadra italiana che giocava, da piccola della Serie A, un futbol catenacciaro e difensivista.

Quell’Atalanta di Nedo Sonetti si salva, ma Stromberg non brilla. È poco meno di un corpo estraneo in quel sistema di gioco. Per la svolta, quella vera, bisognerà aspettare qualche anno. E, come spesso accade, è dopo una delusione che si scrivono le pagine più belle.

Nel 1987, l’Atalanta retrocede ma, finalista in Coppa Italia contro il Napoli scudettato di Maradona, si trova nella curiosa posizione di giocarsi in Europa la Coppa delle Coppe. A Bergamo, intanto, è arrivato Emiliano Mondonico che non lesina sforzi e riesce a convincere lo svedesone a restare in Lombardia. E questo nonostante le difficoltà e le sirene straniere.

Gli offre la fascia di capitano, lui la onora. Sarà, quella 1987-88, una stagione memorabile per la Dea: in Coppa delle Coppe, i nerazzurri agguantano le semifinali ed escono dalla competizione solo al cospetto del Mechelen del portiere Pfaff. Le luci europee distraggono ma nemmeno troppo ché l’Atalanta centra anche l’immediato ritorno in A. Una favola che fonda un ciclo a Bergamo.

Glenn Stromberg, intanto, è sempre più il capitano e i tifosi, che prima erano così scettici, ne fanno un beniamino. Nel ’92, a 32 anni, decide di appendere gli scarpini al chiodo. Non perché sia stufo del pallone e nemmeno perché il fisico non regge più. È solo perché ha giurato che avrebbe lasciato il calcio prima dell’avvento del declino. Prima che i limiti dell’uomo incidano sulla forma fisica, sulla possibilità di combattere, fino all’ultimo fiato, per difendere la sua dea.

Bergamo lo saluta tingendosi di gialloblù, i colori nazionali svedesi. E non lo ha mai più dimenticato.

 

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Giovanni Vasso

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