Cinema. “I piccoli Maghi di Oz” e la forza delle fiabe

In una scuola elementare di Roma, una giovane supplente inizia a leggere ai suoi alunni di quinta degli estratti dal libro Il Mago di Oz (“The Wonderful Wizard of Oz”, 1900), una favola che tutti o quasi abbiamo almeno sentito nominare, non fosse altro che per il  celeberrimo film di Victor Fleming del 1939, con la “stellina” Judy Garland. A ogni lettura, si verificano cose bizzarre, con la realtà e il sogno che si fondono, portando i bambini a divenire in prima persona i protagonisti di una “nuova versione” dell’opera di L. Frank Baum  (1856 – 1919). Questa è, in breve, la sinossi de I piccoli Maghi di Oz di Luigi Cozzi, al ritorno dietro la macchina da presa a due anni di distanza da Blood on Méliès’ Moon, già divenuto un piccolo cult.   

“Io ho sempre fatto film di genere, con una differenza rispetto alla maggior parte degli altri registi che si sono limitati a fare opere, buone o meno buone, di pura imitazione: io infatti ho sempre fatto film apparentemente di genere, sì, divertendomi però in ogni caso a capovolgere al loro interno tutte le regole classiche del genere”, così si è espresso tempo fa Cozzi in una intervista. Queste sue parole spiegano bene non solo l’essenza del suo cinema, ma specialmente il significato di questo suo ultimo e, diciamolo, curioso film. Fermiamoci subito, poiché solo qualche riga fa, lo stesso regista ci aveva avvertito di non giudicare le sue pellicole dall’apparenza. Già, poiché chi conosce la carriera di Cozzi sa che lui ama “giocare” con i generi, puntando più che altro sulla originalità. Difatti, i suoi film, anche quelli magari meno riusciti, sono comunque assolutamente personali e particolari; ad esempio, riteniamo il suo Hercules (1983) una opera che rappresenta tuttora un momento innovativo nella storia della Settima Arte, e non solo di quella italiana, dove al più classico peplum, si innestano elementi fantasy e persino di fantascienza. 

Passano gli anni e il mercato cinematografico sta venendo lentamente stritolato dalle nuove piattaforme digitali, col triste risultato che abbiamo assistito alla progressiva chiusura di storiche sale come il Maestoso, il Metropolitan e il Royal, tanto per limitarci a Roma. Eppure, da qualche anno Cozzi è tornato con nuovo vigore alla regia e rinnovando, come sua consuetudine, se stesso. 

Si è parlato prima di Blood on Méliès’ Moon, un godibilissimo, colorato omaggio dal taglio documentaristico alle origini del cinema di fantascienza, che almeno all’estero ha riscosso il dovuto interesse. Da pochi mesi è invece uscito I piccoli Maghi di Oz, oggetto della nostra analisi, che ha immediatamente suscitato un certo gradimento pure da parte della critica, essendo stato selezionato per l’assegnazione dei David di Donatello come “docufilm”, e avendo vinto il Premio per il Miglior Film Straniero allo Shawna Shea Film Festival di Southbridge (Massachusetts). Infine, l’opera di Cozzi è stata anche presentata all’ultima edizione del Fantafestival, ottenendo un buon successo tra il pubblico degli appassionati del fantastico. Andiamola, quindi, a scoprire questa che potremmo interpretare quale una moderna favola.

I piccoli Maghi di Oz è in sostanza un delizioso pot-pourri, nel quale il regista si è divertito a mischiare due delle sue “tecniche effettistiche” preferite: la pura animazione tipica dei cartoni animati (curata da Angelo Armiero), con delle riprese a Passo Uno, ossia la stop-motion, realizzate per questo film dal giovane e promettente specialista Michele Assante. Tale suggestivo mix lo ritroviamo nel prologo della storia, proprio come avviene in Blood on Méliès’ Moon. Pertanto, non riteniamo errato affermare che in questa fase della sua carriera, il “gioco nel cinema” sia per Cozzi la sua primaria fonte di ispirazione. 

Allargando il discorso all’aspetto ludico nella creatività, va da sé che la favola debba essere vista quale ineludibile archetipo narrativo. Questo lo avevano ben capito tempo fa due menti assai diverse tra loro, malgrado entrambe interessate a comprendere prima e spiegare poi come la favola sia il momento di svolta nel folklore di molte civiltà. Ci riferiamo a Vladimir Propp, che col suo Morfologia della fiaba (1928) ha segnato un punto nodale nel ragionamento scientifico su questo argomento, e a Italo Calvino, il quale, con la raccolta intitolata Fiabe italiane (1956), ha messo assieme le principali storie popolari del nostro Paese, analizzandole poi in vari scritti usciti nel corso degli anni, riuniti nel prezioso volume postumo Sulla fiaba (1988). 

Cozzi non vuole però solamente evidenziare l’importanza del tema fiabesco nello sviluppo della personalità dei bambini. Invero, alla stessa stregua del suo caro Georges Méliès, egli non può evitare di riflettere sulla fantascienza, e nel caso di Cozzi è quella del passato, proponendoci una sorta di “archeocinema” del fantastico aggiornato ai gusti odierni, tracciando così una chiara linea di continuità tra questa e la sua precedente pellicola. Inoltre, un’altra grande passione del regista è quella per il Giappone, non sorprende allora vedere che una delle tante Dorothy presenti in questa storia viva a Tōkyō, nel segno di una coerenza di pensiero e di riferimenti nell’opus del regista.

Tuttavia, ciò che è veramente interessante ne I piccoli Maghi di Oz è individuabile in quella commistione tecnica tra cartoni animati e stop-motion a cui si è accennato sopra, e utilizzata per finalità quasi “documentaristiche”. In effetti, se il film su Méliès può essere considerato un fantasioso documentario rivolto agli adulti, quello su  Oz ha come spettatori d’eccellenza proprio quei bambini che ne sono gli interpreti. Il tutto ci spinge a valutare questa fase recente del cinema di Cozzi come contrassegnata da dei “fantadocumentari”, dando forse vita a un nuovo genere filmico tout court.  

Concludendo, in questa pellicola si parla essenzialmente della forza delle fiabe, le quali hanno un valore pedagogico altissimo che andrebbe meglio sfruttato nelle nostre scuole, ove si coltiva la “seriosità”, incarnata nel film dal personaggio della Preside, ossessionata dai protocolli e dai programmi ministeriali. Cozzi non fa mistero nella sua storia che per lui ciò ostacola lo sviluppo di quel pensiero ludico che si forma grazie all’esercizio della fantasia. Con I piccoli Maghi di Oz, egli ci invita con garbo ad accorgerci che non dobbiamo crescere dei “vincenti”, piccole monadi egotistiche e irrazionali, bensì delle persone capaci di ragionare e immaginare, e la fiaba a questo serve, fornendo da un lato dei codici morali; mentre dall’altro sprona il giovane individuo a un utilizzo del cervello non incardinato nel mondo degli adulti, con i suoi compromessi e ipocrisie. È quindi un gran piacere vedere come, sebbene in modo indiretto e non si sa quanto consapevole, al cinema sia possibile ricordarsi della lezione che ci ha lasciato Maria Montessori con le sue “Case dei Bambini”, di cui le favole altro non sono che la versione allegorica. 

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Riccardo Rosati

Riccardo Rosati su Barbadillo.it

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