Nicolai Lilin, la Russia oltre il “paradigma democratico” e occidentalista

Che qualcosa in Russia potesse cambiare con il risultato di una tornata elettorale non se lo aspettava: «Non c‘era da illudersi». Nicolai Lilin – scrittore e tatuatore di origini siberiane educato alla maniera degli Urca lì, in Transnistria, dove i suoi sono stati deportati da Stalin – non legge le pagine della storia con la lente deformata dal facile entusiasmo: non fosse altro perché un determinato fatalismo, imparato dai codici della strada, lo conosce molto bene. Per questo la vittoria di Vladimir Putin alle Presidenziali non la giudica, nonostante viva ormai stabilmente in Italia, con le categorie dei media occidentali: al contrario, la valuta come inserita tutta nella vicenda di una terra «che non conosce ancora il senso della parola democrazia». Ma non è per nulla scontato che la subisca emotivamente. Cerca, invece, di capirla e di spiegarcela. E quello che dirà non piacerà a tutti.

Nicolai, Putin è riuscito a tornare al Cremlino. Che cosa accadrà adesso, continuerà questo movimento di protesta?
Io l’ho detto e scritto più volte, che tutto in Russia rimane così com’è. Nonostante la stampa, il giornalismo internazionale cerchino di accendere i riflettori, più di quello che meritano, sulle manifestazioni di dissenso. Sono state poche, e quasi tutte insignificanti. Perché San Pietroburgo e Mosca, che sono le città dove si manifesta di più il sentimento critico a Putin, non rappresentano di certo la Russia. È vero, sono città importanti, ma non danno il senso del grosso del paese.

Perché?
In queste realtà le persone hanno costumi più occidentalizzati, più globalizzati. Riescono a percepire la vita, la situazione attuale, molto meglio di persone che vivono in periferia. Purtroppo, però, loro non fanno la Russia. Chi conosce quella terra sa bene come in realtà i moscoviti sono odiati, ci sono proverbi, modi di dire che lo testimoniano, non sono popolari. Anche per questo Putin rimane forte: finché la mentalità dei russi non cresce e con questa cresce la capacità di percepire il senso della parola democrazia, la necessità dei meccanismi sociali. La Russia non è un paese sociale.

Be’, ha conosciuto decenni di socialismo.
Gli anni del comunismo non hanno fatto per nulla bene: la socializzazione forzata non ha funzionato. Ha trasformato il popolo in un branco di ladri e bugiardi. Adesso è un paese allo sfascio. Ha bisogno di essere ricoltivato. Putin sta facendo questo.

Putin come una sorta di ennesimo “male necessario”?
A me lui non piace. Non fosse altro perché ha lavorato per il Kgb, che ritengo la più importante tra le organizzazioni a delinquere. E quindi avere una persona del genere in un paese che rappresenta la sesta parte del mondo a me non suscita nessun tipo di entusiasmo. Però, dall’altro lato, sono consapevole, facendo poche approfondite analisi, che lui è l’unica persona, l’unico politico che può oggi condurre il paese.

Verso una sorta di democratizzazione della Russia?
Questo non succederà mai. Come si può democratizzare un popolo? Non avvengono mai i cambiamenti politici, sociali, che possano rispecchiare le aspettative proporzionali alla durata della nostra vita. Dobbiamo smetterla con questa arroganza di misurare con la solita “unità di misura” gli avvenimenti. Se vogliamo cambiare qualcosa dobbiamo seminare adesso: e forse la terza, quarta generazione potrà essere diversa da ciò che siamo. Noi stiamo vivendo in un sistema già formato. Possiamo solo cominciare a “deformarlo”.

Ci parli di questo sistema?
In Russia è stata la Rivoluzione del ’17 a demolire il Paese, a distruggere il bagaglio culturale di un popolo. Quel che è avvenuto dopo è stata una pazza corsa: i crimini di Stalin, la morte di novanta milioni di persone. E tutto questo proprio perché ci sono state persone che volevano cambiare in breve tempo un sistema. Noi faremmo lo stesso nel momento in cui intendessimo democratizzare i russi. Vuoi sapere come funziona questo sistema?

Sì.
Sono abituati alla corruzione. Ecco, come facciamo a spiegare che la corruzione è un male a una popolazione abituata a pagare l’infermiere di un ospedale per avere una prestazione? Lì sono abituati a pagare per gli attestati scolastici del proprio figlio, per farlo entrare all’università, oppure per non fargli fare il servizio militare: che è uno dei fondamenti di un paese civile, sviluppa nei cittadini il senso di appartenenza al proprio paese. Ecco, quando i cittadini di una nazione pagano per “non contribuire” al servizio di un paese è il massimo: io a persone del genere toglierei il passaporto, toglierei i diritti.

È così la Russia oggi?
La Russia è un paese così grande, dove ci sono così tante persone, che è normale a un certo punto che si generino contraddizioni. Non a caso qui è nato il concetto di anarchia. La cosa che mi stupisce oggi, ad esempio, è vedere come – rispettivamente – sia cresciuto il neonazismo e una forma di nostalgia del comunismo in un paese che ha subito l’invasione nazista e la dittatura comunista. Insomma, è un paese caotico, con grandi problemi, che non ha ancora imparato a gestire.

Esiste una società civile?
Qualcosa di serio è sorto con il movimento dei dissidenti, che hanno tentato di creare un dialogo con altri paesi, con altre culture, ma che sono stati brutalmente combattuti dai comunisti. Oggi non vedo granché all’orizzonte. Soprattutto perché i “nuovi” dissidenti sfruttano la possibilità di criticare un sistema per usarla per piccoli interessi privati. Un chiaro esempio: molti conduttori televisivi che sono diventati anti-putiniani.

Qualche mese fa parlavi con grande enfasi delle manifestazioni e dei giovani coi “nastri bianchi”.
Speravo nei giovani. Sono un interessante terreno politico da coltivare. Anche perché molti di questi sono persone che hanno visto i prodotti del comunismo, ma anche l’incapacità dei vecchi sistemi di inserire le regole del capitalismo e della globalizzazione. Queste persone sono consapevoli che c’è un’alternativa: ma – è questo il loro problema – nessuno di loro ha la possibilità di un sviluppare un discorso con l’attuale classe dirigente in modo così da arrivare a un accordo, a una tregua. Anche se a noi non piacciono queste espressioni perché sembrano l’anticamera di un complotto, di un segreto, in Russia le persone devono fare questo: cercare un interlocutore e definire il futuro. Anche perché Putin non potrà fare lo zar della Russia per sempre.

È quello che sostengono i contestatori.
Già, adesso ci sono dei movimenti nelle città principali: chiedono di consumare di più, di avere la macchina più grossa, le pensioni più alte, un servizio medico migliore…

È come se non ti piacesse più di tanto l’idea che parte di questa contestazione chieda, tra le altre cose, una certa declinazione occidentale di libertà.
Non vedo nel consumismo una soluzione. Perché in ogni caso è un male. Quello che serve alla Russia è una forte iniezione di cultura, un forte mercato interno e poi dare più sicurezza. Oggi non c’è sicurezza istituzionale, perché le persone vivono immerse in una serie di meccanismi corrotti. Come termine di paragone possiamo immaginare alcune zone del nostro Sud Italia (ho avuto un’esperienza in un ospedale in Calabria e ho visto la differenza con quelli della Lombardia). Ecco, figurati in Russia, paese enorme con nove fasce orarie. Tutto questo forma una serie di situazioni che vengono sfruttati dai corruttori. Dubito che tutto ciò possa essere risolto con una semplice e nuova amministrazione del paese. Ci vuole un investimento a lungo termine. Con un meccanismo di riunificazione, non possiamo permettere che ciò che a Mosca non va bene da un’altra parte sia giudicato all’opposto.

Fatico a comprendere, però, chi dovrà essere interprete di tutto questo.
Spero ancora nei giovani, che devono riuscire a creare una nuova categoria politica. Ma non serve fare rivoluzioni. Far scorrere sangue per strada è inutile, anche perché in questo modo il sistema che ricostruiremo nascerà sempre dalle basi di un sistema corrotto. Noi invece dobbiamo studiare, andare all’università, entrare nella politica e lì farci valere. Quello che oggi dimenticano i giovani è proprio questo: l’impegno. Sembra che la gente voglia solo consumare. E non contribuire. Sì, abbiamo dimenticato un’antica regola: quella per la quale quando si chiedeva una cosa a Dio bisognava prima concedere un sacrificio a Dio.

Da questo detto – così come dai tuoi romanzi – si percepisce quanto è stata importante la tua formazione. Soprattutto quella che hai imparato dai combattenti che si sono opposto all’imperialismo sovietico.
Io, per fortuna, non ho mai lottato contro l’imperialismo. Però sono cresciuto con la base educativa, con le suggestioni culturali, di persone che l’hanno affrontato. Mio nonno era anticomunista e nella mia famiglia ci sono stati anche dei martiri che hanno combattuto contro l’imperialismo sovietico. L’imperialismo è il male, innanzitutto perché cancella il sociale. Quando parliamo di socialismo, quello umano, vero e sano, noi partiamo prima di tutto dalla persona. L’imperialismo, invece, si rivolge alla massa, dialoga con la massa e non sopporta l’individuo. L’imperialismo si ha quando c’è una persone, o una serie di persone, che gestiscono la massa e questo uccide l’uomo. Dobbiamo imparare a essere individui, con senso di orgoglio, di onore, di dignità. Ma soprattutto con senso di appartenenza: non mi sento una piuma che volteggia nell’aria. Sono un individuo che sta coi piedi per terra, conosco la mia cultura e la preferisco alle altre.

Quest’ultimo punto – la rivendicazione identitaria – in molti non te lo perdonerebbero.
Non capisco questo finto pacifismo, questo finto garantismo – sviluppato da alcuni eventi storici – dovuto al fatto che, parlo ad esempio dell’Italia, siamo un paese piccolo, con un governo deciso da paesi imperialisti come gli Stati Uniti. Noi non possiamo essere italiani, ma solo omologati, come quelli che vogliono che suoniamo il mandolino. Per uscire da questo cliché, dobbiamo investire nella nostra cultura, nel nostro sviluppo, nella nostra intelligenza. Lo diceva Antonio Gramsci: imparate, perché un giorno avrete bisogno di tutta la vostra intelligenza. Noi oggi affrontiamo lo stesso problema: siamo diventati la proiezione del pensiero di qualcun altro. Per riprendere noi stessi dobbiamo smettere di disonorarci.

Fa un certo effetto sentire un uomo nato in una terra così distante dalla nostra, rivendicare l’Italia.
Nel mio libro dico di essere orgoglioso di essere italiano, non capisco il motivo per cui molti italiani disprezzano il loro paese. Per questo non sopporto il fatto che questi nostri due marò, questi nostri due fratelli, rimangano sequestrati in un paese imperialista come l’India, sapere che i nostri due militarti – qualunque sia la loro responsabilità – sono bloccati in terra straniera. Ma soprattutto questa è l’ulteriore conferma che i nostri rappresentanti storicamente non valgono niente. Noi non contiamo niente, e per recuperare dobbiamo diventare intelligenti. Dobbiamo re-imparare a essere una nazione: che passa anche dal difendere Dante e la Divina Commedia dalla banalità di chi – in nome del politicamente corretto – vorrebbe censurare una delle più grandi opere della letteratura di tutti i tempi.

Che sia questo – il livellamento – il peggiore degli imperialismi?
In realtà il mondo così non viene uniformato ma diviso. Già da diverso tempo noi abbiamo diviso il mondo in paesi occidentali e paesi di Terzo o Quarto mondo: ma che razza di espressione è questa? Li abbiamo già condannati. Per me ognuno ha il diritto di essere se stesso, poi ciò che accade nel proprio paese sono fatti suoi. Noi non possiamo trattare tutti con la categoria che rappresenta noi stessi. A me, ad esempio, il modello americano non piace: mangiano male, non sono ben formati. L’unica cosa positiva che hanno? La libertà di possedere le armi. Solo che non la sanno utilizzare e si ammazzano come cani.

Bella questa. Non l’avevo mai sentita.
Nel Rinascimento – che è nato qui in Italia e che ha contributo allo sviluppo del mondo, al modo di comprendere l’arte e l’immaginario – ogni cittadino poteva avere un’arma, un coltello, la spada di lato. Col tempo, quando la politica è diventata corrotta, il nostro paese ha cominciato a subire i danni provocati da entità terze. Qui, tra le altre cose, sono entrati i divieti: uno di questi è l’uso di armi. In Irlanda fino a qualche tempo non si poteva portare nemmeno un coltello con la punta. Una legge, questa, che proveniva direttamente dall’imperialismo britannico. Ma che cosa hanno da insegnare i britannici? I loro giovani sono quasi tutti alcolizzati, non sanno come sfogarsi, hanno aperto le porte al terrorismo islamico, sono coinvolti in tutte le guerre. E che fanno? Intervengono con leggi razziste arrivando a vietare anche i coltelli da cucina. Insomma, noi dobbiamo imparare a riconquistare i nostri diritti. Non con la violenza, ma con sacrificio e duro lavoro.

Quanto è stato importante nascere in Transnistria?
Sono nato lì, in un posto dove le persone, per cultura, cercavano di combattere il regime sovietico. In realtà, guardando a alcuni principi del regime, quelli “sani” sono filtrati. Solo che sono i siberiani a rappresentare i “veri” comunisti: perché lì il principio di condivisione dei beni è sacro. Spesso, infatti, questo principio viene offuscato e tradito dai politici, perché arrivando al potere ci si dimentica delle persone per trasformare tutto in massa: si sa, la massa è più facile da controllare.

 

* da Carta Minuta

Antonio Rapisarda

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