Libri. Il “Bar” di Novellini: viaggio sentimentale tra Céline e l’eterno Strapaese

Tra i bar più curiosi d’Italia, il Bar Fod di Cisternino, Fasano

C’è forse qualcosa di più unanimemente denigrato, nell’epoca in cui viviamo, del discorso da bar? A guardarsi in giro, si direbbe proprio di no. Ed è una curiosa nemesi, perché in fondo cosa sono i nostri commenti sui social network se non un’estensione del dominio della chiacchiera, e cosa le nostre identità virtuali se non una proiezione fantasmatica di quel che furono i ruoli sociali del bar.

Eppure tutti, senza distinzioni, disconosciamo l’ormai obsoleto, impresentabile discorso da bar, assurto a modello di conversazione sconveniente per un’umanità che non tollera più il discorrere fine a se stesso e che pretenderebbe di saturare ogni anfratto dialettico con quei borborigmi da compulsatore di enciclopedie online cui si dà il pomposo nome di “competenze”.

C’era dunque bisogno che qualcuno si sobbarcasse il compito di restituire al bar la sua dignità letteraria, ed è quel che è riuscito a Donato Novellini con il suo Bar, un viaggio sentimentale in venticinque tappe attraverso

«bar belli, storici, cittadini, eleganti, raffinati, inaccessibili; bar che vorrebbero darsi un tono assomigliando ai primi, ma facilmente smascherabili passata la moda del minimale tutto bianco e delle palme finte; bar di paese e talvolta di frazione senza pretese, di stazione ferroviaria o dal benzinaio, popolari, popolati da gente schietta ma più spesso fasulla per dovere di copione; fantasmi saturi di ritualità peculiari, impregnati d’Italiano atavico o del dialetto più sguaiato; bar di cinesi, con cameriere italiane, indiane, estoni, messe là dietro a un bancone come seduttrici del beone, del tipo di passaggio, che diverrà innamorato cliente fisso. Bar delle illusioni, santuari kitsch, rifugi d’oziosi, di gente in extremis, di sconosciuti che potrebbero restare tali, come no».

L’autore è quel cesellatore della parola che i barbadilliani ben conoscono per i suoi Artefatti. Il libro, edito dalla piccola e benemerita Giometti & Antonello (già segnalatasi per la pubblicazione del Gilles di Drieu La Rochelle e del carteggio Junger-Hoffmann sull’Lsd), un cocktail di suggestioni aperto da un’utilissima dichiarazione di inutilità: «Si scrive per bere, non il contrario».

A scandire questo catalogo d’impressioni dall’incedere céliniano sono la continua entrata e uscita in scena di tipi umani inconfondibili, la litania delle marche di alcolici in bella vista («tutto quel tramestio d’allungo, quella correzione spiritica attorno alla verginità, evidentemente prostituibile, del caffè»), il florilegio di amori immaginati nell’ora lieta dell’aperitivo e subito inghiottiti nel tempo («perché replicano gli artigiani, mentre gli artisti dimenticano»). Ma sono soprattutto gli sfondi, cioè i bar, unici protagonisti indiscussi.

Più che precise genealogie e rimandi letterari conviene cercare un comune sentire, un’atmosfera. In questo senso Bar è a pieno titolo epigono di un filone sotterraneo della cultura italiana – anzi padana, dal momento che i suoi autori di riferimento sono tutti lombardo-emiliani – in cui si ritrovano l’epica gastronomica di un Paolo Monelli, di un Luigi Veronelli o di un Gianni Brera, l’ironia di Stefano Benni, lo Strapaese di Guareschi, gli echi di Gaber e di Guccini e molto altro ancora.

Quello che manca rispetto a tutto ciò è il richiamo a una cultura contadina ormai dissolta, e nemmeno troppo rimpianta. Lo sguardo del protagonista-narratore indugia su «una depressione padana adiacente all’argine del grande fiume», urbanizzata e disincantata. Un orizzonte che «non è periferia, non è provincia, è madida desolazione retrodatata, inanità in dolce declivio, dissolvenza del piano regolatore».

Novellini ha però il merito di ricordarci come, perfino nelle espressioni più degradate e postmoderne, i bar restino l’ultima ridotta di una resistenza silenziosa al dispiegarsi del Grande Flusso in tutta la sua potenza, quella che in vent’anni ha travolto un’infinita distesa di librerie, orologiai, ciabattini, mercerie, alimentari, latterie (per tacere dei bar-latteria, autentica archeologia commerciale in cui solo pochi fortunati possono ancora imbattersi), restituendo al loro posto un avvilente panorama di franchise dell’abbigliamento e discount, compro oro e negozi di sigarette elettroniche, sale slot, bingo e massaggiatrici cinesi.

Il bar come deposito dell’ultima sapienza artigiana rimastaci, dunque? Può starci, ma solo a patto di non intendere tutto questo in un’accezione museale, da laudatores temporis acti. Perché se l’osteria incarna una tradizione interrotta e poi risorta a nuova vita – benché spesso sia quella posticcia e gentrificata dei locali hipster contrabbandati per improbabili “officine del gusto” e “taverne di una volta” – il bar vive della sua perenne impermanenza. Fateci caso: perfino nell’immaginario futuristico e fantascientifico si incontra immancabile lo scenario di un bar, segno che l’uomo, animale sociale, non riesce a pensarsi lontano da un saloon o una locanda, nemmeno quando si cala nelle vesti di un navigatore dello spazio profondo.

Il bar impone la sua presenza fisica ai non luoghi per antonomasia, dagli outlet agli aeroporti. E sopravvive, continuando a rappresentare il tramite di una socialità immediata nell’epoca del virtuale, all’esaurirsi di molti degli elementi che ne hanno connotato l’identità: il calcio balilla, il flipper, il juke box, i videogiochi arcade, la schedina del Totocalcio, prossimamente – chissà – il giornale di carta e magari le orrende slot.

Bar con biliardo

Non perdiamoci in rimpianti, allora. Finché l’ultimo uomo calcherà la terra, resterà sempre un luogo per perdere e ritrovare se stessi, e brindare al fatto d’essere ancora al mondo.

 

«In girum imus nocte et consumimur igni. Nel mezzo tutti i bar meno ammodernati del circondario: sperdute bettole di frazione, trattorie per camionisti, bugigattoli d’avvinazzati, malfamate cineserie padane dove fare scandaloso ingresso da redenti, passerella d’esuli, spallucce al sabato sera. Insomma il peggio del peggio, ovvero il meglio; in fondo è una forma di solidarietà improvvisata, una faccenda tra noi, in grado di compiacere quell’indolenza scettica che ci fa diffidare delle aspettative. O forse è solo una questione anagrafica, la consapevolezza d’essere male in arnese col mondo».

@barbadilloit

Andrea Cascioli

Andrea Cascioli su Barbadillo.it

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