Cultura. “Esploratori del continente” di Claudio Mutti: Eurasia e il senso dell’unità

Eurasia
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La geopolitica e i necessari strumenti interpretativi

Di questi tempi si fa un gran parlare di geopolitica, purtroppo spesso senza possedere i necessari strumenti interpretativi, per via della mancanza di imprescindibili letture. Ciò fa sì che questa complicatissima disciplina venga perlopiù confusa col concetto di “mondialismo”, analizzando il tutto semplicisticamente come una serie di rapporti di forza economici e militari. “Vittima” prescelta di questa errata prospettiva è la parola Eurasia. Ci vorrebbe onestamente poco per evitare di scambiare la geopolitica con la globalizzazione, sarebbe sufficiente rifarsi alle sopracitate letture, da Halford Mackinder a Karl Haushofer, fino a Jean Thiriart; solo per citare la Scuola Europea, poiché la geopolitica ha basi solidissime in molti studiosi russi. Un utile strumento per cominciare a capire meglio quelli che sono i fondamenti del ragionamento geopolitico lo si trova nel libro di Claudio Mutti: Esploratori del Continente. L’unità dell’Eurasia nello specchio della filosofia, dell’orientalistica e della storia delle religioni. Benché pubblicato qualche anno fa, esso affronta con un linguaggio semplice tematiche tuttora di stringente attualità. Invero, non bisognerebbe farsi ingannare dalla essenzialità della scrittura in questo volume, dovuta alla volontà di chiarire e non confondere le idee al lettore su di un argomento di enorme complessità. Non per niente, ogni capitolo è corredato da  varie note che fanno ben comprendere l’alta qualità che sta dietro a questo lavoro. Ciò non dovrebbe sorprendere, considerato che l’autore è anche il fondatore della rivista Eurasia, la quale da anni tenta di proporre una interpretazione altra di questa disciplina, contrapponendosi con coraggio a quella occidentocentrica delle testate che vanno per la maggiore e che vengono, sciaguratamente, accreditate nei circoli delle élite come in possesso di competenze specifiche che, invece, non hanno, declinando di continuo la geopolitica attraverso la lente distorta dell’economia e di un Diritto Internazionale che inneggia ostinatamente al Global Power.

L’elemento geografico e il fattore continentale

Nella sua Presentazione al volume, Tiberio Graziani sottolinea come i ragionamenti presenti in questo libro, sebbene in esso si affrontino personaggi del passato più o meno recente, rimangono comunque quelli essenziali dell’odierno dibattito geopolitico: “La dimensione continentale, o gran regionale, appare costituire, infatti, l’entità geopolitica più rispondente alle attuali necessità storiche della popolazione mondiale” (7). Questo, per chiarire subito come l’approccio “continentalista”, proprio perché si basa su quell’elemento geografico tanto caro specialmente a Haushofer, riconosce e valorizza non solo l’articolazione geografica, ma anche l’aspetto geoculturale, quindi identitario, sia in una prospettiva etnica che spirituale, rientrando a pieno titolo nell’ambito dei cosiddetti studi tradizionali. Per quanto concerne il continente eurasiatico, che rappresenta la porzione del pianeta più ricca di civiltà, al momento non ci sono testi in italiano che ne analizzino compiutamente l’organicità geoculturale. La raccolta di saggi di Claudio Mutti qui presentata contribuisce a colmare tale mancanza. Tramite l’esame dell’opera di significativi filosofi, orientalisti e storici delle religioni dell’Ottocento e del Novecento, l’autore ci permette di renderci conto di una convergenza tra le numerose entità culturali dell’Eurasia, che non vanno intese, come detto, quali semplici fattori economico-geografici, bensì come elementi culturali plurimi, apparentemente assai differenti, eppure, se presi in esame con un approccio tradizionale – e Mutti lo fa – si rivelano uniti da un legame profondo. Alcuni dei nomi di cui si parla in questo libro sono famosi, almeno per sentito dire, per il pubblico dei lettori (Friedrich Nietzsche, Giuseppe Tucci, Mircea Eliade, Martin Heidegger), altri meno (Italo Pizzi, Ananda K. Coomaraswamy, Franz Altheim, Henry Corbin), ed è proprio ripercorrendo il rapporto di questi ultimi con l’Asia che Mutti apre prospettive in parte nuove. Invero, di recente in degli ambienti che si propongono come “dissidenti” e con atteggiamenti impropriamente giovanili, si tende regolarmente a dire il già detto, soffermandosi sui soliti autori: Evola, Jünger, Spengler, per poi ritrovarsi a spacciare ragionamenti paludati, come se fossero innovativi o, ancor peggio, a spingere così oltre il desiderio di essere originali sino al punto dell’inesattezza. Tutto questo non appartiene minimamente al modo di fare ricerca di Mutti, come dimostrato anche da questa sua opera, giacché costui viene da un tipo di formazione “antica”, quindi seria, che non considera il presenzialismo culturale sinonimo di competenza.   

Da tempo, sprovveduti analisti che circolano sia a destra che a sinistra non sono capaci di fornirci strumenti adatti per comprendere appieno il valore cruciale della dimensione continentale. Nondimeno, la ricostruzione di entità geopolitiche più rispondenti alle attuali necessità storiche della popolazione mondiale è l’unico rimedio per fermare la degenerescenza della politica internazionale. 

Quando si accenna, anche solamente, al famigerato Piano Kalergi, si viene immediatamente tacciati di complottismo. Tuttavia, gli obiettivi indicati agli inizi degli anni ’20 da Richard Coudenhove-Kalergi (1894 – 1972) sono stati quasi tutti raggiunti. Ed è per l’appunto esaminando il presente stato del Continente Europeo, visto però nell’ottica di alcuni eminenti studiosi e pensatori del passato, che Mutti indirettamente mette a nudo la crisi identitaria dei popoli occidentali e lo fa citando fonti autorevoli, di persone che si sono soffermate con raffinatezza intellettuale su questo problema. Ad esempio, proprio nelle prime pagine del volume, vengono ricordate le parole di Nietzsche, il quale, reiterando il suo pervicace odio verso i nazionalismi, riesce a sintetizzare ineccepibilmente la situazione in cui ci troviamo oggi, avendo pure anticipato quella società apolide tanto incoraggiata dal Potere Globale: “[…] queste circostanze portano necessariamente con sé un indebolimento e alla fine una distruzione delle nazioni, per lo meno di quelle europee; sicché da esse tutte, in seguito ai continui incroci, dovrà nascere una razza mista, quella dell’uomo europeo” (13). Per quanto concerne Nietzsche, pare evidente che la sua attenzione per la spiritualità indiana fosse in chiave violentemente anticristiana. Questo ci permette di evidenziare due elementi che caratterizzano lo scritto di Mutti. Sarebbe a dire, che i personaggi da lui presi in considerazione si dividono in due categorie: specialisti dell’Oriente, sovente anche esploratori in quelle terre lontane da un lato; grandi intellettuali affascinati dalle culture asiatiche dall’altro. Nel caso di Nietzsche, e lo diciamo col massimo rispetto verso questo nodale filosofo, risulta chiaro a chi orientalista è che egli abbia giudicato più che viaggiato! Il suo è un Oriente “sfruttato” per parlare, e male, dell’Occidente. Ciò a nostro avviso indebolisce parzialmente le sue riflessioni sul rapporto tra questi due continenti. 

Studiosi da riscoprire

Un grande motivo di conforto, in una epoca di libri che poco o nulla servono per arricchire la propria cultura, è lo scoprire qualcosa di nuovo; la saggistica non serve forse a questo? Se poi si tratta dell’ennesimo erudito italiano obliato dalla modernità, la gioia è doppia. Ecco, che Mutti ci racconta di Italo Pizzi (1849 – 1920), iranista, nonché uomo dalla grande cultura. L’insigne arabista Francesco Gabrieli, nell’ormai remoto 1969, così denunciava la rimozione della memoria di Pizzi nella colpevolmente sempre distratta Accademia nostrana: “l’oblio quasi totale in cui quell’operosissimo divulgatore di esotica cultura è oggi caduto” (29); parole che già parecchi anni or sono palesavano i mali dell’orientalistica italiana, ossia, l’oscuramento, a partire addirittura dalle bibliografie, di tutti quei nomi che in passato resero grande gli studi italiani sull’Asia, preferendogli puntualmente specialisti anglosassoni, oppure studiosi contemporanei che nelle nostre università han dato prova di essere poco all’altezza di questa sontuosa tradizione intellettuale. Per quanto riguarda le riflessioni di Pizzi sull’Oriente, costui poneva l’accento sulla grande rilevanza per la letteratura occidentale di quella persiana: “Ora, ciò che ha potuto fare un poeta persiano, non si vede perché non abbia potuto fare, in condizioni forse non dissimili, un poeta greco” (33). Sebbene Mutti sottolinei determinate analisi forse eccessivamente semplicistiche da parte di questo importante orientalista, ne loda comunque la capacità di aver individuato nel mondo proto-musulmano mediorientale, e islamico più in generale, una risorsa che per noi può e deve ancora essere fonte di interesse. La storia della ricerca italiana anche in questo settore è gloriosa, grazie a numerosi islamisti (pensiamo a Carlo Alfonso Nallino, a cui è intitolato a Roma un prestigioso Centro Studi, e che fu allievo proprio di Pizzi) e iranisti di grande rilievo, e di cui Pizzi fa degnamente parte. Fossero di più i libri, come questo, che ci fanno riscoprire tanti nomi dimenticati del sapere; ebbene, l’orientalistica italiana vivrebbe una stagione diversa da quella attuale.   

Ananda K. Coomaraswamy (1877 – 1947) è uno dei maggiori esponenti del Pensiero Tradizionale, anche se conosciuto quasi esclusivamente da chi si occupa di questa particolare corrente filosofica. L’erudito di origine cingalese è spesso presente negli scritti che Mutti ha negli anni rivolto a una visione tradizionale dell’arte, intesa come espressione della spiritualità umana e non, come avviene ormai da decenni, quale mero dato storico-tecnico. Nel capitolo a lui dedicato, viene spiegato come Coomaraswamy vedesse una convergenza tra Occidente e Oriente nell’arte, però soltanto in quella tradizionale, criticando contemporaneamente la intrinseca decadenza di quella moderna; e lo fa riprendendo delle riflessioni di San Tommaso, nelle quali si ammonisce contro un’arte che: “non ha altri fini al di là di se stessa” (46). 

Coomaraswamy fece da ponte tra l’arte occidentale e quella orientale, essendo pienamente addentro a entrambe, parlando perciò in virtù di una competenza scientifica completa. In questo, egli ci ricorda quello che fece il giapponese Kaiten Nukariya (1867 – 1934) in ambito religioso, cercando di raccontare il Buddhismo Zen agli occidentali in un modo per noi comprensibile, e con riferimenti anche al Cristianesimo, nel suo libro, da noi introdotto e curato: La religione dei samurai. Filosofia e disciplina zen in Cina e Giappone (Roma, Edizioni Mediterranee, 2016). Del resto, il volume di Mutti ha il precipuo scopo di ricostruire un legame continentale tra Est e Ovest, ripercorrendo le opere e il pensiero di personaggi che nel tempo si sono occupati di questo problema. Va da sé, considerando il tema del libro e il suo autore, che non poteva mancare un capitolo su Mircea Eliade. Troppe sarebbero le cose da dire su quanto lo studioso rumeno ha fatto per la Storia delle Religioni, principalmente sulla cultura sciamanica, la quale è una delle anime profonde dei popoli eurasiatici. Ciononostante, vale la pena soffermarsi su quello che era il concetto chiave per Eliade di Eurasia. Ovvero, un vasto spazio geografico e spirituale che per lui trovava il suo centro in Romania, che egli considerava il “cuore” dell’Eurasia (66). 

La teoria espressa da Mutti, per la quale il Continente Eurasiatico sia un qualcosa che ci riguarda da vicino, giacché esso arriva sin dentro l’Europa, è a nostro parere convincente e dettagliatamente documentata. L’unico appunto che possiamo fare è che si tratta di una prospettiva geopolitica prettamente europea. Infatti, per i geopolitologi russi, che potremmo definire come appartenenti a un eurasiatismo integrale, l’Eurasia è una entità geografica non certo conflittuale con quella europea, ma pur sempre altra, quasi alternativa. 

Invertire la rotta!

Giungendo alla fine di questa nostra analisi, è utile ricordare ancora le parole dalla Presentazione di Graziani, che spiegano perfettamente quello che è l’obiettivo del libro di Claudio Mutti, ossia il proporsi come un potente e rigoroso invito a: “[…] riscoprire l’intima unitarietà delle diverse manifestazioni culturali dell’Eurasia” (8), così da invertire la rotta indicata da quella incapacità di capire l’Oriente da parte di coloro che da anni chiamiamo i benpensanti del progresso. La posizione di Mutti si inserisce in quella espressa già anni addietro dal più grande orientalista dell’epoca moderna, Giuseppe Tucci (a cui è dedicato un apposito capitolo), che aveva chiara la importanza di tracciare prima e ricostruire poi una unità spirituale eurasiatica. Infatti, nei variegati e sofisticati interessi di ricerca di Tucci, trovava spazio anche l’eurasiatismo; d’altronde, il suo IsMEO (Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente) venne fondato precisamente per svolgere un ruolo di attore culturale e politico in molti di quei Paesi che rientrano nella suddetta unità continentale. Quest’ultima fu quasi una ossessione per Tucci sino alla fine della sua vita, come ci ricorda Mutti, citando quello che è stato con molta probabilità l’ultimo intervento pubblico del grande erudito italiano, per mezzo di una intervista rilasciata al quotidiano la Stampa, il 20 ottobre 1983: “Io non parlo mai di Europa e di Asia, ma di Eurasia. Non c’è avvenimento che si verifichi in Cina o in India che non influenzi noi, o viceversa, e così è sempre stato” (55). 

Nell’invito alla riscoperta delle riflessioni sull’Asia di alcune grandi menti d’Occidente, Mutti non fa mistero nello spiegare come quella “Inquisizione neoilluminista” che ha caratterizzato la conoscenza in Europa a partire dal Secondo Dopoguerra abbia sostanzialmente riportato indietro le lancette del pensiero, eleggendo la semplice e sterile nozione, disarticolata da un ragionamento, a una sorta di valore castale tra cattedratici e affini. Ragion per cui, non possiamo che convenire con Mutti quando parla di una: “[…] insufficienza dell’erudizione accademica di fronte alle dottrine spirituali” (37). Difatti, se ci si illude di poter comprendere il Medio ed Estremo Oriente imparando le cose a memoria – quando va bene – ritenendo superfluo lo sviluppo di una percezione di cosa quei Popoli provino veramente, allora non dovrebbe affatto stupirci che tali persone ciarlino sistematicamente a sproposito di “civiltà”.  

* Sentiamo di dover ringraziare Annarita Mavelli, studiosa dell’eurasiatismo integrale, che ci è stata di aiuto per meglio affrontare le tematiche presenti in questo volume.

*Esploratori del Continente. L’unità dell’Eurasia nello specchio della filosofia, dell’orientalistica e della storia delle religioni di Claudio Mutti (Genova, Effepi, 2011)

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Riccardo Rosati

Riccardo Rosati su Barbadillo.it

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