Storia (di G. Del Ninno). Ma il fascismo fu (anche) vita domestica e quotidiana di un popolo

Nel corso di quel periodico “rimettere a posto” le carte, gli oggetti, le foto di casa, mi son capitati tra le mani un’istantanea in bianco e nero di mia madre in divisa da “piccola italiana” (gonna nera e camicetta bianca) e il pugnale da Avanguardista di mio padre. Loro, infatti, i miei genitori, furono bambini, ragazzi e giovani durante il fascismo, a Napoli, e del fascismo assorbirono le suggestioni, a partire da quelle impartite loro nelle scuole o nell’Università.

 

Di fascismo si parla spesso in televisione e sui giornali (di meno al cinema: e forse bisognerebbe chiedersi perché…), per deplorarlo, condannarlo e scongiurarne il ritorno; e questo soprattutto in periodi che precedono le elezioni. L’opera di Renzo De Felice e poi il lavoro degli storici revisionisti, pur meritorio, non sono riusciti a intaccare la leggenda nera di quel periodo storico, che si vorrebbe se non cancellare, almeno considerare come un’oscura parentesi in quella che Gioacchino Volpe definì “L’Italia in cammino”.

 

Il fascismo, per i giovani della nostra epoca – e non solo per loro – è essenzialmente violenza, dittatura, guerra, leggi razziali e – accusa meno importante… – incultura. Eppure, intrecciando le letture di autori meno prevenuti verso quel Movimento, con il racconto che della loro vita quotidiana mi facevano i miei genitori, il sonno della ragione e il tragico buio di quegli anni mi appaiono attraversati da sogni e da raggi di luce.

 

Non è questa la sede e non è mia intenzione integrare quella visione demoniaca del fascismo con la memoria delle bonifiche, con la fondazione di città, con la realizzazione di restauri e opere nuove coerenti con un’urbanistica d’avanguardia, che trasformarono e abbellirono le nostre città, e ancora con la costituzione dello Stato Sociale che ispirò perfino il New Deal americano, insomma con la modernizzazione di un paese che da prevalentemente agricolo e analfabeta diventò potenza industriale e, senza trascurare l’educazione di massa, seppe valorizzare i suoi ingegni nei più diversi campi dello scibile, da Marconi a Pirandello.

 

No. Io in queste poche righe vorrei offrire soprattutto ai giovani – e penso ai miei nipoti, che dalla scuola sono indottrinati, come tutti i loro coetanei, sul filo di quella “leggenda nera” – degli scorci di vita quotidiana durante quel periodo, senza nasconderne o alterarne le realtà drammatiche, ma recuperando dalle memorie familiari momenti e valori positivi ancor oggi.

 

Certo, nella valutazione complessiva del fascismo, non si può trascurare non tanto la sua origine violenta – peraltro in risposta alle “settimane rosse” che travagliarono il primo dopoguerra –  quanto, innanzitutto, la guerra, anzi le guerre. Non bisogna dimenticare, però, il clima, le esigenze, i costumi dell’epoca; insomma, dobbiamo storicizzare e, come si dice, studiare il contesto. Per secoli, la guerra, ad esempio, è stato un fenomeno “normale”, anche se deprecabile, per intere generazioni di europei, fino agli accadimenti recentissimi dei conflitti balcanici seguiti alla dissoluzione della Jugoslavia, a un braccio di mare dalle nostre coste adriatiche.

 

Così, doveva essere considerato “normale”, per i giovani dell’epoca, partecipare all’avventura coloniale: mio suocero sedicenne – che poi sarebbe diventato un comandante partigiano – si presentò volontario negli uffici di reclutamento per la campagna d’Abissinia, ma fu rimandato a casa per l’età, e la stessa esperienza fece il fratello minore di mio padre, desideroso di partire con l’Armir per la campagna di Russia. Un giovane fratello di mia madre, invece, fu imbarcato su di un incrociatore classe Caio Duilio, per andare a sostegno dei franchisti, a bombardare dal mare Barcellona, allora nelle mani dei repubblicani. Certo, la guerra rendeva drammatiche le ordinarie preoccupazioni dei genitori, ma quegli avvenimenti – che nel caso dei miei nonni paterni avrebbero comportato, ad esempio, la perdita della casa, distrutta dai bombardamenti alleati – venivano vissuti come un aspetto temporaneo della normalità quotidiana, in un atteggiamento tra il fatalismo e la speranza nel futuro. Così, mentre il figlio era in guerra, mia nonna continuava a dipingere, inchiodata al suo cavalletto, per integrare il magro stipendio del marito, funzionario del Comune.

 

Negli anni 30 del 900, i ragazzi e le ragazze andavano tutti a scuola e studiavano non solo le imprese e le doti del Duce, ma assimilavano la storia della patria e dei suoi spiriti eletti, la sacralità della famiglia, l’importanza della religione, del lavoro e del risparmio; tutti valori che poi, dopo la tragedia della sconfitta, ho ritrovato pressoché intatti nel mio libro di lettura e nel mio sussidiario delle elementari. Tutto questo non impediva loro di andare al cinema ad ammirare Amedeo Nazzari o Alida Valli o a ballare i “lenti” sulle note di “Parlami d’amore Mariù”, nelle feste in casa di amici; e si canticchiavano i motivetti del trio Lescano, alternandoli con gli inni religiosi nella chiesa della Provvidenza in via Salute, per poi intonare “Giovinezza”, nelle adunate del sabato.

 

I ragazzi leggevano i fumetti del Vittorioso e dell’Avventuroso (a mio padre piacevano in particolare le avventure di Flash Gordon, che nella versione italiana diventava Gordon Flasce), e la lettura, in ogni caso, era fra le attività preferite (in mancanza, direbbero i miei nipoti, di altre “distrazioni”, tipo computer, tv e play station…). E così s’immergevano nelle pagine di Salgari o di Rafael Sabatini, mentre le ragazze sognavano con le storie di Pitigrilli (per nulla preoccupate dal fatto che l’Autore era ebreo…).

 

Immagino lo stupore di mia madre e di mio padre bambini, abituati al “piccolo mondo antico” della città fatta di vicoli e di palazzi malandati, con pochi edifici grandiosi – civili e religiosi – regalatici per lo più dal passato borbonico, di fronte ai grandi lavori per la rifondazione della sede del Banco di Napoli, sulla via Toledo, o per l’edificazione della Stazione Marittima o, ancora, per la realizzazione del maestoso palazzo delle Poste a Monte Oliveto… Ma, a proposito di foto e di grandi opere, mi capita ora fra le mani una serie di istantanee che riguardano stavolta la famiglia di mia moglie, e più precisamente il nonno paterno, Armando Conte – fra i primi ingegneri d’Italia – mentre cammina al fianco del Duce, in occasione della fine dei lavori di ristrutturazione dello Stadio Nazionale (ora stadio Flaminio), a Roma. E quel nonno, tanto per ricordarlo, aveva partecipato alla Marcia su Roma, come mio nonno materno, ufficiale reduce della Grande Guerra…

 

Insomma, molti di noi potrebbero rievocare e tramandare, per averlo ascoltato dalla viva voce dei testimoni dell’epoca, una sorta di fascismo domestico e quotidiano, che non fu solo paccottiglia retorica o esaltazione della violenza; e questo, senza nulla togliere al doveroso e meritorio revisionismo storiografico che, sul piano accademico, si sforza di restituire alla dignità della storia patria quel deprecato Ventennio.

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Giuseppe Del Ninno

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