Teatro. Il corpo e il mare: a Siracusa Davide Enia racconta “Scene dalla frontiera. L’abisso”

Davide Enia
Davide Enia

Scene dalla frontiera. L’abisso” è lo spettacolo che Davide Enia porta in giro nei teatri per salvare la parola del trauma, quella che racconta lo slabbrarsi dei corpi, delle coscienze, dell’anima. Naufraghi gli uomini, figli superstiti di un mare interiore, che più è gonfio più ci dice la nostra esistenza. Tutti ma qualcuno lo è di più, perché quel mare per loro è gonfio di notte e di buio. Così, è facile esserne risucchiati, diventare carne per pesci, masse di umori flaccidi, finire impigliati nelle reti dei pescatori, a volte salvati dai soccorritori, fatti riemergere dai sommozzatori. Quel mare di dentro e di fuori sta nel corpo di Davide Enia, corpo offerto alla scena.

È uno spettacolo fisico, questo lavoro dell’attore palermitano, che col corpo disegna la scenografia (minima: due sedie, una bottiglietta d’acqua, un appoggio per le chitarre), col corpo dà vita ai personaggi (Davidù, il padre, Paola e Melo, lo zio, il sommozzatore, il custode del cimitero di Lampedusa, i pescatori, i rescue man), col corpo ci porta nel mare tradimentoso e nello spaesamento del fatto privato (il rapporto con il padre e la malattia dello zio). David Enia agita mano e voce. E riempie la scena, la sgomenta mentre racconta altre mani e altre voci. Il mare è sempre di notte, così inghiotte meglio i corpi. Corpi neri, che nell’ultimo annaspare urlano il proprio nome, inutilmente. Corpi lacerati dall’acqua salata, corpi ustionati dall’acqua salata e dalla benzina, corpi mutilati di deserto e di stupri, corpi non nati da ventri violati, corpi appena nati da ventri violati. Corpi alti e grossi, allenati alla matematica e alla vita: tre è uno in più di due, “Così ne salvo tre” dice il gigantesco sommozzatore a Davidù. Il sommozzatore si fa i conti prima di afferrare i corpi neri. Le sue mani sanno il movimento per salvare; le mani di Davide Enia sanno il movimento per raccontare.

Un libro da leggere con i piedi” scrisse Pietrangelo Buttafuoco del libro “Appunti per un naufragio”(ed.Sellerio), da cui è tratto lo spettacolo. Guardi Davide Enia in scena e ti chiedi come guardare quest’opera. Bastano gli occhi? Nemmeno stavolta. La devi attraversare la scena del dolore, devi provare a sporcarti piedi e cuore per capire l’impegno tutto di anima, messo da Enia in questo monologo. E così lo guardi con i piedi e con lo stomaco, con gli occhi e con il cuore. Davide Enia ti dà ottanta minuti per farti domande: una su tutte “E’ questo il nostro limite?”. Nello spettacolo privo di scenografia, sostituita dalle braccia dell’attore che disegna nell’arco della scena campagna e onde, stanze e camposanto, è il ritmo a dominare. Anche di questo si appropria l’attore e lo restituisce intermittente tra singulto e frenesia, quando conquista il centro del palcoscenico e accelera le parole, amplifica la voce e si muove con lo scatto di un moderno pupo. Polifonia per voce sola è la  pièce di Enia.

Impossibile a farsi senza la musica, splendida e decisa, di Giulio Barocchieri. Le sue chitarre accompagnano i gesti. I due artisti si fondono sulla scena, sebbene la luce, bianca su Enia e calda su Barocchieri, si ostina a tenerli separati. Le musiche di Barocchieri sono le note del cunto dei pescatori, sono le note metalliche del salvataggio e della tragedia del 3 ottobre del 2013 a Lampedusa (l’evento che avrebbe dovuto essere l’incubo dell’Europa), sono i rumori disturbanti che stanno al fondo delle nostre azioni, delle nostre indecisioni, delle nostre scelte. Ed è musica quel dialetto palermitano che irrompe nel racconto, sgorgando dalle viscere dell’identità: una lingua dal Sud del Sud del mondo, una lingua che ha un’unica cantilena di rabbia e dolore e sentimento. La musica è la seconda voce in dissolvenza. Il dialogo tra voce, gesto e musica è l’essenza di questo spettacolo, che non ha dottrine da diffondere o da difendere, ma intuizioni del cuore da far avvertire. Se il cunto porta nella sua forma la ripetizione, forse è qui il senso di questo spettacolo imperdibile. Ripetere le emozioni, ritrovare le origini laddove ogni morte ripete l’assenza della vita. Il racconto termina, si spengono le luci, parte l’applauso. Ma c’è ancora altro da dire: c’è da cantare la memoria.

Le luci tornano, tornano dolcissime le note e torna Enia e ricorda il mito di Europa: il toro e la fanciulla che lo cavalca da una sponda del Mediterraneo all’altra. Alla nostra.

 

Non c’è ideologia, ma consapevolezza: si realizza qui il teatro. Non poteva cominciare meglio la prima stagione del Teatro di Siracusa, voluta dall’Assessore alla Cultura Fabio Granata e dal Sindaco Francesco Italia. Per Antonio Calbi, Sovrintendente dell’Istituto del Dramma Antico che ha prodotto lo spettacolo, “Scene dalla frontiera. L’abisso” dimostra a cosa serve il teatro. Serve a quartiarsi, dirà Davidù al pubblico, a mettersi al riparo dal peggio. Il pubblico accoglie e premia con un applauso lungo e commosso uno spettacolo bellissimo.

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Daniela Sessa

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