Scuola “Gentile”. Dalla querelle sul ministro Fontana alla nuova guerra delle parole

Da Capitan Harlock all’Italia attuale: c’è sempre bisogno di lottare per la libertà (di pensiero)

Nei giorni appena trascorsi il ministro Fontana ha riportato al centro del dibattito politico alcune questioni terminologiche. Punto primo: non esistono genitore 1 e genitore 2, ma solo padre e madre. Punto secondo, strettamente legato al primo: in senso proprio, si può essere figli solo di un maschio e di una femmina. Punto e a capo. Appena ieri, in aggiunta, il Presidente del Consiglio ha rivisto pubblicamente, e nell’occasione più solenne, il senso del termine populismo, rivendicandone l’appartenenza nel caso in cui, con esso, si intenda la sollecitudine a farsi carico delle aspettative e delle paure dei cittadini, citando Dostoevskij. Ed è giusto che sia così: hanno entrambi ragione. La battaglia politica va vinta vincendo prima quella delle idee, e la battaglia delle idee passa in misura inimmaginabilmente centrale per la battaglia delle parole. Lo avevano ben capito Robespierre, Marat e Danton. Gli storici della rivoluzione francese Thomas Molnar ed Haim Burstin dedicarono la loro attenzione proprio a questi due fenomeni: la rilevanza del primato culturale della minoranza giacobina per un verso, la specifica importanza della questione lessicale per l’altro.

Il fronte rivoluzionario, prima che sulle barricate, aveva già vinto la sua battaglia culturale riuscendo a dettare tempi, luogo e modalità del confronto, sì che, in qualche modo, il blocco di potere dell’ancien régime – il quale, lo si ricordi bene, nel 1789 era ancora perfettamente in sella e pienamente in grado di servirsi di tutti gli strumenti repressivi e di controllo consentitigli dalla più assolutistica e rodata macchina statale europea – iniziò il confronto vero, quello combattuto a colpi di pistola, con la diffusa percezione della colpevolezza della propria posizione. Essere anti-rivoluzionari divenne sinonimo di trovarsi dalla parte sbagliata, e chi non è sicuro della propria scelta difficilmente è in grado di morire e dare la morte per essa. Lo stesso termine di ancien régime è esemplare. Nessuno se ne serviva, prima della vittoria della Rivoluzione. La sua introduzione traduceva in ovvia ed istantanea accezione negativa una chiara e tutt’altro che asettica presa di posizione politica: nominarlo, odiarlo e combatterlo erano tutt’uno. Un po’ come la media tempestas sulle labbra di un umanista o di un rinascimentale. 

Già, le parole sono importanti. 

E lo sono perché su di esse camminano le idee. E certe idee fanno paura, sia ieri che oggi, come ebbe modo di scoprire il ricercatore Reynald Secher quando, nel presentare la sua dissertazione dottorale, definì genocidio quello perpetrato dall’esercito repubblicano in Vandea, tanto per rimanere in tema rivoluzionario. Scoprì, Secher, che perfino negli anni Ottanta del Novecento ed all’interno di un’aula universitaria certe cose non si potevano dire, scoprì che anche gli stati e le repubbliche moderni, proprio come quelli antichi, hanno i loro miti fondativi, le loro leggende eponime: conoscono parole che non possono essere dette e concetti che non possono essere espressi, pena la venuta meno del castello teorico sul quale si reggono. L’espulsione dal corpo accademico francese fu la sua condanna. Certo: sempre meglio della Bastiglia, si dirà. Verissimo. Nondimeno, la compattezza con la quale il sistema politico, accademico e giudiziario francese si mossero al tempo ha il pregio di insegnarci qualcosa: idee e parole cambiano davvero il mondo. Tale consapevolezza può essere raggiunta e propagandata in modi differenti. Il marxista Gramsci era costretto a farlo instaurando un confronto quantomeno problematico con il suo proprio materialismo storico: eppure lo fece, eccome. Nessun intellettuale italiano novecentesco comprese e spiegò meglio di Gramsci quanto fosse imprescindibile, per chi si sente alfiere di una causa politica, guadagnare preventivamente a tale causa le menti dei cittadini e, prima di esse, le menti di coloro che formano le menti: i professori. E se Gentile aveva reso realtà l’idea di una scuola fascista, è Gramsci ad avere più concretamente additato, con lucida strategia, come fosse su cattedre e banchi che si sarebbe giocata la partita. 

Il problema di noi reazionari – mi riferisco non ovviamente ad ogni lettore, ma solo a coloro, fra essi, che si sentono accomunati allo scrivente da tale sentire, appellandomi alla benevola pazienza degli altri – è che, paradossalmente, elaborare un organico progetto di “assalto al sapere” che parta dalle aule scolastiche ed universitarie ci risulta difficile, molto più difficile di quanto non si sia rivelato per i rivoluzionari. Perfino quando non viene “da sinistra”, e penso al futurismo ed all’interventismo italiano, capace di trascinare un paese in guerra grazie all’attivismo ed all’organizzazione di un pugno di uomini, lo spirito rivoluzionario sembra avere una marcia in più, quando si tratta di mobilitare le masse e, prima di esse, le avanguardie intellettuali. 

V’è, però, un fattore che consente un cauto ottimismo. Noi reazionari siamo, oggi, gli unici possibili rivoluzionari. Comunque lo si approcci, tutto quello che negli States è noto come Alt-right e da noi potrebbe essere derubricato sotto la ampia voce di sovranismo o, per citare il termine orgogliosamente rivendicato dal nostro Presidente del Consiglio, di populismo appare di gran lunga all’offensiva. E’ difficile dire se l’attuale fase di incasso elettorale della quale tale variegato schieramento sembra godere un po’ dappertutto in Occidente sia destinata a durare, ora che inizia, proprio a partire da Stati Uniti ed Italia, la prova del governo. Ma è sicuro che tale crescita è stata propiziata da una forte capacità di proiezione culturale, soprattutto a livello microscopico e diffuso, più che a livello “alto”, stante la capillare occupazione di tutti i gangli del potere accademico della fazione avversa. 

Che il primato vada alla lingua parlata in aperta opposizione a quella ufficiale e scientifica sulla quale proseguono ad abbattersi le scuri della censura politicamente corretta ha qualcosa di significativo, e rappresenta in un certo modo la nuova fase dell’eterno confronto fra cultura come sangue e tradizione e cultura come progetto intellettuale, quello stesso confronto che ha assunto la sua forma più evidente nella recente storia europea nella dicotomia Illuminismo-Romanticismo. Tuttavia, è palmare come non si vada lontano nel momento in cui certe parole conservano una loro agibilità solo all’interno di contesti informali, quasi fossero mantenibili in vita come dei parenti scomodi, motivo di vergogna quando ci si reca in società. Una situazione del genere sarebbe molto simile alla plumbea cappa di conformismo progressista calata sulla cultura ufficiale occidentale dagli anni Settanta fino ad oggi. Anzi, fino a ieri. Per questo la battaglia delle parole è appena agli inizi, come sembrano aver perfettamente intuito il ministro Fontana ed il presidente Conte. 

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Francesco Forlin

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