Libano. Palestinesi di Siria nei campi profughi tra emergenza umanitaria e pressioni salafite

DSC_6046Burj el Barajneh e Ain El hilweh sono solo due dei dodici campi palestinesi ufficiali presenti in Libano. Sono luoghi pressoché tutti uguali, perché i diritti riservati ai palestinesi nel Paese dei cedri sono ovunque gli stessi: semplicemente non esistono. “Qui non abbiamo nessun tipo di diritto civile. Nessun diritto al lavoro, sono 72 i mestieri che ci è vietato svolgere. Non possiamo possedere case” spiega Abo Taka, del movimento Fatah,  a capo del comitato popolare del campo di Burj El Barajneh, circa 10mila abitanti, situato nella parte meridionale di Beirut.

Una discriminazione determinata dal fragile equilibrio su cui si basa il sistema politico-confessionale libanese: i palestinesi sono in maggioranza musulmani sunniti, accettarli come cittadini comporterebbe lo sconvolgimento dei rapporti di forza tra comunità religiose in un Paese che si regge su istituzioni calibrate sul peso dei gruppi confessionali. Questo fa dei campi dei non-luoghi nei quali la vita scorre in continua emergenza e dai quali è purtroppo facile anche attingere manovalanza utile a incrinare gli equilibri confessionali quando qualche fazione lo ritenga conveniente. Sta succedendo anche ultimamente nei campi ulteriormente affollati dai disperati in fuga dalla Siria – palestinesi e siriani – dove pare che stiano giungendo grandi quantità di denaro in cambio della disponibilità ad agire su input del movimento sunnita al Mustaqbal, dell’ex premier Saad Hariri. Lo scopo è quello di reclutare manovalanza che conduca azioni contro il partito sciita di Hizbollah, che controlla il sud di Beirut e di tutto il Paese e le cui milizie stanno combattendo in territorio siriano al fianco delle forze governative di Bashar al Assad. Hariri è infatti apertamente filo-occidentale e schierato contro il governo di Damasco, fin dal principio della crisi siriana uomini di al Mustaqbal sono risultati coinvolti nei traffici di armi e mercenari diretti in Siria dal nord del Libano, la zona del Paese a maggioranza sunnita. Usare i palestinesi, approfittando delle condizioni di vita all’interno dei campi è fin troppo facile.

Dedali di stradine tra sporcizia, fili elettrici e tubi dell’acqua che corrono pericolosamente vicini, si intrecciano e a volte uccidono. Solo a Burj El Barajneh dall’inizio del 2013 i morti folgorati sono stati già 29, centinaia ogni anno. Scuole di fortuna messe in piedi grazie all’Onu e ad associazioni internazionali, aiuti per tutto: mangiare, curarsi. La vita normale nei campi è questa e da qualche mese è ancora più dura: l’afflusso massiccio di profughi provenienti dai campi siriani complica le cose.

Le poche strutture ricreative e comunitarie vengono messe a disposizione dei nuovi arrivati e chi non trova posto si deve arrangiare in tende e baracche, arrivando da un Paese in guerra che, al contrario del Libano, ha sempre garantito alla comunità palestinese gli stessi diritti riservati ai cittadini siriani.

A Burj El Barajneh il Centro degli artisti palestinesi e libanesi ospita famiglie con bambini e donne anziane fuggite lasciando tutti i loro affetti e ricordi. A Ain El Hilweh, il campo di Sidone, il più popoloso di tutto il Libano con almeno 80mila abitanti, è la “Casa Bianca”, centro sociale e scuola, ad essere diventato un rifugio. Anche due, tre famiglie per stanza e il posto non basta: poco fuori dall’edificio è nata una baraccopoli di stracci e cartone per dare un tetto a chi non ha trovato posto tra le mura.

Molti dei nuovi profughi sono fuggiti dal campo di Yarmouk, il più grande della Siria. Gli ospiti di Burj El Barajneh sono più loquaci di quelli di Ain El Hilweh. Nel primo, situato nella parte meridionale di Beirut dove predomina la comunità sciita, gli integralisti islamici trovano poco spazio e i profughi raccontano senza timore chi e cosa li ha fatti fuggire dalla Siria: i salafiti “sparavano all’esercito siriano in mezzo alla gente” usando le persone come scudi umani, racconta un padre fuggito con il proprio bambino. “Ci dicevano che dovevamo scegliere: combattere con loro contro l’esercito regolare o essere uccisi” dice un altro capofamiglia che in Siria era un impiegato statale e ora si trova a dover dividere la vita con altre famiglie in uno stanzone separato da teli di fortuna.

A Sidone, nel campo di Ain El Hilweh, invece, le risposte sono sfuggenti, alle domande lo sguardo si abbassa. Qui gli integralisti sono tanti, li si vede girare per le vie dell’enclave e si scontrano spesso con la sicurezza del campo. Qui i profughi si portano dietro la stessa paura vissuta a Yarmouk o a Sbayna. Meglio tacere. E sopravvivere.

@barbadilloit

Alessia Lai

Alessia Lai su Barbadillo.it

Exit mobile version