Il punto (di N.Perrone). Se l’America profonda resta il punto di forza di Trump

Donald Trump
Donald Trump

Lui è l’espressione di quell’America che è stata sempre esclusa dal potere al vertice degli Stati Uniti. Per capire il sostegno a Donald Trump, nella campagna elettorale e dopo la sua elezione, occorre conoscere quella parte dell’America che non è stata mai protagonista al vertice degli States. E rifletterci su. Si tratta dell’America della provincia sterminata, di quegli stati della confederazione che si trovano fuori del circuito magico che da Washington e New York sempre ha dominato il potere politico e quello della grande finanza: l’America delle grandi famiglie. L’America che ha voluto Trump è invece prevalentemente quella che vive, lavora, paga le tasse, e magari soffre fuori del circuito magico delle metropoli della politica e dei grandi affari internazionali. La forza di Trump continua a trovarsi tutta lì.

Per un presidente degli Stati Uniti, si tratta di uno scenario interno del tutto nuovo. Non si tratta di un’America povera, perché anche in quell’area ci sono grandi ricchezze, naturalmente insieme a sacche di miseria. Però si tratta di una popolazione che il potere di Washington se lo è sentito sempre imporre sulla testa, senza che fosse una sua espressione diretta. Questo spiega il consenso che, proprio da quelle aree periferiche, è venuto a Trump. Esso è arrivato in buona parte anche dai ceti popolari, e perfino da alcune fasce di emarginazione: erano i voti di chi sapeva di dover continuare a non contare nulla, ma ha preferito una presidenza che non fosse più l’espressione delle aree geografiche da sempre padrone del potere. Quell’America ha voluto al tempo stesso dimostrare la propria esistenza, e protestare contro un’altra America.

Questo non vuol dire affatto che Trump sia un progressista, o che da qualche parte ci si aspetti che possa diventarlo. Niente affatto: quel voto è stato l’espressione dell’America che si sentiva esclusa dal potere politico centrale. Si tratta di una parte consistente degli Stati Uniti. Infatti, se si dà un’occhiata ai sondaggi Gallup sull’andamento del consenso per Trump, si scopre che dopo le elezioni esso si è dimostrato costantemente consistente, a differenza di quanto era avvenuto per altri presidenti: fra il 41 e i 45 per cento dall’insediamento alla presidenza fino a maggio, circa il 38 da giugno a metà novembre, 36 nella prima decade di dicembre. Gli americani indecisi su Trump sono rimasti costantemente fra il 5 e l’8 per cento, mentre contrari sono stati tutti gli altri. Un consenso che si è mantenuto insolitamente elevato, e ha dato forza a Trump.

Questo deve essere il risultato di una politica del presidente che, a parte gli annunci in senso contrario, nei fatti finora non ha forzato la mano. Per esempio, contro la Repubblica Popolare Democratica di Corea, che ha continuato tutti i suoi minacciosi esperimenti missilistici e nucleari, Trump ha promesso reazioni molto energiche: il che, nel gergo americano, vuol dire missili e bombe. Ma, prudentemente, si è fermato alle parole. La Corea intanto ha dimostrato di disporre di ordigni micidiali. Se ne ricaverebbe l’impressione che Trump, a parte le affermazioni verbali da grande potenza, ha la capacità di mantenere l’equilibrio. Confrontato ad altri presidenti, anche democratici, la propensione di Trump alla guerra, finora non appare elevata.

Quanto alla riforma sanitaria che era stata fatta da Barack Obama, Trump aveva dichiarato di volerla smantellare. Naturalmente lo avrebbe fatto per rendere un piacere alla lobby delle assicurazioni, che lo aveva sostenuto nella campagna elettorale. Quando ha incontrato le prime resistenze, ha bloccato il suo piano, promettendo di riprenderlo. Ma intanto le cose sono rimaste all’incirca com’erano. Vuol dire che Trump è diventato progressista? Certamente non è così. Egli resta un uomo politico conservatore, con un forte senso della realtà. Non insiste nelle sfide quando non è veramente sicuro di vincerle.

E al tempo stesso cerca di non irritare quell’America che non lo ha votato e che vorrebbe anzi eliminarlo con un impeachment (Trump ha contro di sé la grande stampa). Si tratta di un’America che sta mostrando di aver pazienza. Senza affrettare i tempi, cerca di raccogliere altre prove contro di lui. Ma il tempo gioca a favore di Trump, che intanto governa e cerca a parole di contentare i suoi sostenitori repubblicani, ma senza irritare nei fatti i suoi accaniti oppositori. Per lui non è facile. Egli è arrivato alla Casa Bianca sostenuto dai repubblicani, ma senza essere organicamente espressione di quel partito: condizione in cui non è facile mantenere il consenso, ma finora ci è riuscito. Trump non dev’essere proprio un uomo politico da poco. Pur venendo semplicemente da esperienze di affari.

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Nico Perrone

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