Il commento. La morte di Riina e lo Stato più forte delle vendette

Totò Riina
Totò Riina

Totò Riina è morto questa notte. Punto. Non lacrime per lui, perché le abbiamo già versate quando, accecato da una furia inumana, ha strappato alla vita i figli migliori della nostra Italia. Tanto ceco e feroce da non comprendere che la sua mano assassina avrebbe issato degli idoli a cui in tanti si sarebbero aggrappati per tentare uno slancio di speranza. Riina muore, assistito dai suoi familiari nelle ultime ore di agonia.

Muore secondo quanto la legge prevede anche per delle belve come lui. Muore da detenuto, perché questo era. La polemica su una sua eventuale dipartita in domestica, non ha più motivo di esserci. Avesse concluso la sua agonia a casa, sarebbe cambiato ben poco. Lo Stato deve essere più forte delle vendette, deve essere ben altra cosa rispetto a una torma di briganti. Sant’Agostino ce lo ricorda con una sapienza tutta romana e cristiana: la differenza tra la Res publica e le bande criminali è la giustizia. E Riina è stato trattato secondo giustizia.

Anche le sue vittime sono più forti del capo dei capi. Falcone, Borsellino, Dalla Chiesa, Chinnici, Alfano, Fava, Impastato, Lizzio, Rizzotto, etc. Valgono infinitamente lui. Hanno onorato la loro missione di uomini di giustizia. La loro missione di uomini. Muore Riina, ma non muore la mafia. Mutata nelle forme, ma non nell’obbiettivo di brindare alla propria onnipotenza figlia del nulla: indimidazioni, volgarità e compiacenze varie, svaniscono nel tempo.

Muore Riina, ma molte delle sue vittime non hanno ancora giustizia. E forse non l’avranno mai. Va via e porta con se tanti segreti inconfessabili. Perché ancora oggi non si spiega come una banda di “viddani” e di contadini, sia riuscita a mettere sotto scacco un intero Paese. Qualcuno evidentemente glielo ha permesso. Come gli ha permesso di arricchirsi smisuratamente. Soldi che c’erano e ci sono ancora.

Sia seppellito dunque. Dove e come non importa. Gli sia concesso l’ultimo atto che si deve a un uomo, anche se dei peggiori. A chi l’ha voluto bene è giusto che gli sia concesso un luogo per deporgli i fiori. È giusto. In fondo, noi non siamo loro.

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Fernando M. Adonia

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