Letteratura 2.0. Massimiliano Parente, lo scrittore inumano ai tempi della scienza

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Uno sguardo puntuto e fulminante innestato su una faccia quasi infantile. Degli occhiali per cui non lo si potrà mai prendere troppo sul serio. Una zazzera che tende alla cresta conferendogli l’aspetto del ragazzaccio. Vi è in lui qualcosa di inquietante e scostante. Sembra sempre malmostoso, ma con rabbia. In effetti, è sprezzante e senza remore. Le sue recensioni, su Il Giornale, sono stilettate in pancia e frecce velenose. Eppure, più di tutto, lui si considera uno scrittore e il più grande – difficile capire se scherzi, quando lo dice. Ha polemizzato con tutti gli ingessati rappresentanti del politicamente corretto e gli scrittori affiliati alle mafiette dei salotti buoni. Come si potrà immaginare, sono in molti a odiarlo. Chi lo ama vede, invece, in quel suo modo di fare così diretto e sarcastico, una voce liberatoria. Signore e Signori, andiamo a incontrare Massimiliano Parente.

 

Credo che oramai i più ti considerino una carogna, una specie di versione italiana di Céline o Houellebecq. In effetti, hai detto peste e corna di tutti, o quasi, i grandi nomi della narrativa nostrana, da Lagioia a Baricco. Sei veramente come ti dipingono?

 

Cosa avrei dovuto fare? Diventare come gli altri? Mediocri e leccaculi? Da un lato ho rinunciato ad avere una vita normale per scrivere opere fondamentali; dall’altro ho sempre scritto (collaborando con i giornali in quanto scrittore e sempre con contratti di cessione diritti), quello che pensavo degli autori italiani, firmando oltre quattrocento stroncature per quindici anni. E non solo ho stroncato autori, ma anche critici. L’Italia letteraria è formata da tante consorterie di mediocri che si appoggiano l’un l’altro. A suo tempo, hanno tentato di cooptarmi. Importanti critici mi mandavano i loro libri con dediche affettuose. C’è chi ci andava a cena per costruirsi una carriera e chi, come me, li schifava e li stroncava perché erano indietro di cinquant’anni. La cosa grave è che c’è una giovane generazione di critici che è ancora peggio di quella dei vecchi, vedi una come Gilda Policastro, che all’inizio mi sembrava pure intelligente. Il problema è che sono rimasti fermi al passato, chiusi in gruppetti di poeti e pseudo intellettualini fuori tempo massimo. Non andranno da nessuna parte, resteranno nella loro cerchia, che è poca cosa. Non hanno la pazienza di creare qualcosa di importante, solo la fretta dell’arroganza, del salire in cattedra. Mi ha fatto ridere la Policastro, che si è lamentata perché il Corriere della Sera l’ha fatta fuori, dopo che aveva scritto una cosa tipo “momento mnestico”, sentendosi esclusa perché troppo intelligente. Sono sottoprodotti della retroguardia universitaria. Ha fatto bene il caporedattore a cacciarla. Dovrebbero darle una cattedra, questo sì, perché è una che ha studiato le cose che le davano da studiare. Ma non è andata oltre e quindi va bene per insegnare cose morte, non per scrivere, tantomeno per scrivere di altri vivi.

Io, prima di diventare Parente, sono stato per due decenni recluso in casa, perché prima di dirti Scrittore devi farti notare per un’opera che sia indiscutibilmente tale. Devi conquistarti un’autorevolezza basata sul lavoro, non sulle chiacchiere, non sulle consorterie, piccole o grandi che siano. Le piccole sono peggio delle grandi, perché sono uguali, solo più sfigate, con meno potere.

Ma ho anche portato avanti coloro in cui credevo. Pensa che un autore come Antonio Moresco non avrebbe avuto Canti del caos o Gli increati pubblicati da Mondadori senza le mie recensioni. Me lo disse il direttore della Mondadori: «Senza di te, non sarei riuscito a farlo passare».

Hai pubblicato con Bompiani, Mondadori, ES, e tanti altri famosi. Come mai hai poi deciso di approdare a La Nave di Teseo? Cosa ritieni abbia il progetto della Sgarbi che manca alle altre case editrici?

Elisabetta Sgarbi è l’ultima visionaria in un mondo in cui nessuno pensa più alla letteratura. È una persona coraggiosa, che ha lasciato la Bompiani, diretta per oltre vent’anni, per un progetto totalmente autonomo. Chi altri lo avrebbe fatto? Inoltre fu proprio lei a pubblicare Contronatura, quando era in Bompiani, dimostrando anche lì di credere nelle opere, persino le più estreme e ambiziose. E pensa che abbiamo anche litigato pesantemente, non è un segreto, ma dopo anni (nel frattempo passai a Mondadori) mi ha ripreso per pubblicare l’intera Trilogia dell’inumano in un volume di mille e seicento pagine. Fosse stato per gli altri, sarei dovuto morire prima di vedere uscire un progetto simile. Elisabetta ha pubblicato un’opera postuma con l’autore ancora in vita. Per l’arte, è stata capace di mettere da parte il rancore, come un editore d’altri tempi. È la più antica e la più moderna. Molti dicono che sia “un po’ pazza”. È vero, e meno male che lo è. Altrimenti non avrebbe mai pubblicato neppure me. Anche Gallimard era un po’ pazzo per pubblicare Céline.

Hai dato alle stampe un volume colossale, epico direi. Milleseicentosessanta pagine, una trilogia in un unico tomo, in cui vengono riuniti romanzi già editi. Costi la bellezza di ventotto euro, in cartaceo. Cosa diresti a un potenziale lettore per spingerlo a sobbarcarsi un simile esborso e un processo di lettura tanto impegnativo? Insomma, perché vale la pena leggere Trilogia dell’inumano di Massimiliano Parente?

Perché è un’opera unica, non nella letteratura italiana, ma in quella occidentale. Ho impiegato 14 anni di scrittura e riscrittura. Un progetto che è iniziato a 23 anni ed è finito a 40. Chi la legge non ne uscirà indenne, ma cambiato, come ne sono uscito cambiato io scrivendola, quasi fino a impazzire. Dentro la Trilogia c’è tutto: la società dello spettacolo, la pornografia, la scienza, in un’avventura anche linguistica senza freni, pagina dopo pagina. L’ultima parte, L’inumano, ha richiesto una preparazione di due anni di studio di testi di biologia evolutiva, genetica e astrofisica, perché arriva ai confini dell’umano e non in senso umanistico, ma facendo quello che nessuno scrittore ha mai fatto: portare alle estreme conseguenze la coscienza umana attraverso la scienza. I miei interlocutori sono diventati nel frattempo gli scienziati, anche importanti che, con mia grande sorpresa, mi hanno letto. Il mio migliore amico, quello con cui facevo i discorsi più interessanti sul mondo, era l’astrofisico Giovanni Bignami che mi chiamava ogni giorno, tutte le mattine, e purtroppo è morto a maggio, lasciandomi un vuoto terribile. Ieri sono stato un’ora al telefono con Telmo Pievani e Giorgio Vallortigara, due grandi. Ero emozionato come un bambino. Tra l’altro Pievani e Vallortigara sono tra i pochi in Italia ad aver portato avanti una battaglia contro le religioni, dal punto di vista scientifico. Consiglio a tutti il loro libro Nati per credere, edito da Codice Edizioni. Lo stesso tipo di discorso che, negli Stati Uniti, sta conducendo imperterrito Richard Dawkins, dai giornali italiani spesso citato come “biologo darwinista” – come se potesse esserci un biologo non darwinista. Mentre parlare con un letterato oggi è inutile. Sono rimasti a Franco Fortini o ad Asor Rosa. Sono tristemente sociali, tristemente obsoleti, al massimo ti citano Pasolini, che aveva coniugato comunismo e cristianesimo. Bella trovata! La vera avanguardia del pensiero sono gli scienziati, ignorati dagli scrittori, che infatti non scrivono mai nulla di interessante, soprattutto in Italia. All’estero è diverso. Ci sono autori che studiano la scienza come Ian McEwan. Anche scrittori apparentemente di genere, come l’ultimo Dan Brown. Il suo Origin è strepitoso e si interroga sulle questioni ultime: chi siamo, da dove veniamo, arrivando a conclusioni per niente banali. Si vede che ha studiato molto. Gli altri non studiano e si nota. Arriva un Dan Brown e li fotte tutti.

Come avete proceduto, tra editing e revisione dei testi, per la pubblicazione della Trilogia?

In realtà mi sono limitato ad apportare piccole correzioni qua e là. Non puoi metterti a cambiare un’opera di questa portata, rischieresti solo di rovinarla. È stata concepita per durare secoli. Quando mi sono trovato a rileggerla, mi veniva il capogiro. Mi sono chiesto dove avessi trovato tanta energia. Oggi non sarei più in grado di farlo.

 

Solitamente, quanto tempo impieghi per scrivere un romanzo, vista la mole media dei tuoi lavori?

 

Dipende, sulla Trilogia ti ho già detto, è stata la mia opera più impegnativa, una follia. Per altri romanzi, come Il più grande artista del mondo dopo Adolf Hitler, o L’amore ai tempi di Batman, ho impiegato circa due anni ciascuno.

 

Esiste uno scrittore che, quando l’hai letto, ha cambiato la tua vita?

Tra tutti Marcel Proust. Sulla Recherche ho anche scritto un saggio, L’evidenza della cosa terribile. Il libro adesso è introvabile, ma si può leggere integralmente sul sito di Nuovi Argomenti. E poi mi hanno cambiato la vita gli studi di molti scienziati, da Charles Darwin a Richard Dawkins, da Daniel Dennett a Stephen Pinker.

 

Quali sono i più interessanti scrittori italiani, al momento? A parte te, naturalmente…

Grandi maestri come Alberto Arbasino e Aldo Busi (con il quale ho litigato più volte, l’ultima sembra gravissima perché gli ho dato della “checca isterica”), Giuseppe Culicchia, Isabella Santacroce, e Piersandro Pallavicini, che è anche un grande chimico (una marcia in più rispetto ai letterati rimasti al Medioevo). È stato così carino con me da scrivere una bella introduzione alla Trilogia. Consiglio a tutti il suo La chimica della bellezza e anche tutti gli altri. Mi divertono molto, poi, i libri di Diego De Silva, che scrive centomila volte meglio di tutti quelli che ogni anno vengono candidati allo Strega. E anche il mio amico Fulvio Abbate, pur avendo io riferimenti culturali molto diversi dai suoi. Mi piace perché è un irregolare situazionista, un pazzo, un bambino fuori controllo, un anarchico della fantasia.

Non è un mistero che non appartieni al novero dei cosiddetti maschi femministi. Basti vedere i tuoi post su Facebook, riguardo al caso Asia Argento. Vorrei chiederti a questo proposito se ritieni esista una “scrittura femminile”, nel senso di un modo di scrivere che solo le donne possono avere e che è invece precluso a noi maschi.

La letteratura non è né maschile né femminile, quando c’è, quando non c’è può essere anche femminile, come un centrotavola ricamato. Flaubert cos’è? Scrittura maschile? Nessuno ha descritto la donna come lui. Stesso discorso per Henry James. Così come, viceversa, Joyce Carol Oates non è letteratura femminile. E mi sorprende, anzi, che il suo nome non venga mai fuori per il Nobel. Sarà perché uno scrittore, quando è un vero scrittore, non ha sesso. Le cose più feroci contro di me le ha scritte Madame Medusa. Nella Trilogia è una lettrice che mi perseguita e, quando l’ho creata, non ero io, era lei che si scriveva da sola.

C’è una scrittrice italiana che consideri particolarmente talentuosa? Se sì, per quale motivo?

Isabella Santacroce. È completamente fuori dai circolini letterari. È una vera ossessionata dalla scrittura. Ha scritto opere artisticamente importanti, come la trilogia di Desdemona XI, e infatti è ignorata dai critici. Tra cinquant’anni si chiederanno cosa cazzo facevano i critici in Italia, visto che gli sono sfuggiti tutti i romanzi importanti e hanno scritto fiumi di parole, che so, su Teresa Ciabatti o Paolo Cognetti, o uno di questi qui, tanto sono tutti intercambiabili. L’anno scorso mi trovai a Rai 1, al Caffè Letterario diretto dal bravo Andrea di Consoli, con uno che si chiama Stefano Gallerani e si definiva critico letterario del Manifesto. Gli ho detto: «Che razza di critico sei se non hai mai letto un mio libro?». Tra cento anni sarà ricordato solo per questo scambio di battute con me. Sono esseri inutili. Si leggono l’un l’altro, ogni tanto tirando fuori il tormentone “a cosa serve, oggi, la critica?”. Finché ci sarete voi non servirà a niente. Sparatevi.

Pensi che quello che hai scritto rimarrà nella storia della Letteratura Italiana, magari Europea? E, soprattutto, quando hai scritto le tue opere, l’hai fatto con il proposito di creare qualcosa che potesse sopravvivere all’inesorabile scorrere del tempo?

Non rimarrà nella storia della letteratura europea, ma Occidentale. Che poi è la storia della letteratura tout court. Chi mi ha letto lo sa. Ci sono studenti in Italia che hanno approfondito la Trilogia per le loro tesi di laurea (a volte contattandomi per chiedermi aiuto, ma io non ho niente da aggiungere sulle mie opere, non faccio neppure le presentazioni). Non è mai stato fatto niente di simile, non solo in Italia, ma nel mondo.

Hai scritto molto, pur essendo un autore relativamente giovane. Hai per caso in mente una sorta di grande romanzo, dove far confluire tutto ciò che – immagino – senti non ti sia riuscito di dire, o avresti voluto dire in modo più profondo?

No, sono stanco. Non esco quasi più di casa. Non vado agli inviti che ricevo. Mi chiamano in televisione ogni settimana, ma non ho voglia di farmi vedere, di sicuro non gratis. E, comunque, non ho mai avuto voglia di farmi vedere in generale. Per me è sempre un tormento, un’angoscia. Io non esisto in quanto persona, non mi interessa. Ho dedicato la mia vita a esistere nelle mie opere e per me esistono solo quelle. Sono andato anche dalla D’Urso, in passato, è vero, ma a 1500 euro a puntata. Non vado da nessuna parte se non pagato e non perché sia avido, ma perché l’umanità mi repelle. Non ho più l’energia di un tempo e credo di aver detto tutto quello che volevo dire. Amo la mia compagna, amo il mio compagno, amo mia figlia. Vado avanti ad antidepressivi, perché essere me è una cosa che si paga cara.

In chiusura, vorrei darti un’anticipazione: sto lavorando a un libro per Bompiani, convinto da un editore amico come Antonio Franchini. Lo consegnerò a fine dicembre e uscirà a marzo. Di cosa parla? Sarà una sorpresa. Ci sarà da divertirsi.

Matteo Fais

Matteo Fais su Barbadillo.it

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