Libri. “Il Canto degli animali” di Isotta, viaggio alle origini (vere) della cultura

isotta canto animaliEsce, per i tipi di Marsilio, l’ultima fatica di Paolo Isotta. “Il Canto degli Animali” è un libro importante. Che affronta, in un vorticoso e affascinante viaggio tra musica, letteratura, poesia e cultura il rapporto che ha l’uomo con gli animali.

Tanti, troppi meriti ne ha l’Autore perché si possa compiutamente elencarli tutti. Primo tra tutti, ma di sicuro non l’unico, è quello di aver centrato, analizzato e affrontato un tema che è di assoluta attualità.

Inizio dalla fine. “La conoscenza, e i limiti della conoscenza, per l’uomo incominciano e finiscono con gli animali?”. Quale potenza, in una sola domanda. Di sicuro, dalla loro osservazione e dalla loro amicizia (ma pure dall’inimicizia e dalla lotta con la Natura) è nata la cultura. Persino la matematica – pensiero astratto par excellence – ne è debitrice se è vero, come è vero, che l’idea dei grandi numeri arriva dall’osservazione delle loro moltitudini (Adriano Romualdi con Thieme a proposito di indoeuropei, ricorda come l’etimo del sanscrito laksa – che sta per 100.000 – discenda dall’antichissimo lemma per “salmone”  e si ricollegherebbe alla visione dei branchi di pesci che risalgono i fiumi del Nord Europa per riprodursi, simili lasciti sono attestati anche nell’antica cultura egizia e in quella cinese).

E sempre dalla conclusione, l’idea dell’animale pontefice è autenticamente tradizionale e classica. Risuona, e restiamo solo in Italia, l’eco delle traversate sabelliche, umbre, protolatine appresso a un picchio o a un lupo, alla ricerca non (solo) di una terra promessa (e quanto tempo prima della Bibbia semitica) ma di un destino. Senza gli animali, senza di loro, l’uomo sarebbe ancora perduto, a tremare nelle caverne.

La conoscenza finisce con gli animali? Temo di sì. E mi spiego. Tanta cinematografia, tanta letteratura (soprattutto bassa, popolare in senso commerciale del termine) affronta il tema del crollo della civiltà, con mille artifizi, i più vari: dalla guerra atomica fino alla invasione degli zombie. Ogni circostanza avrebbe esiti a dir poco devastanti perché l’uomo moderno è così arrogantemente dipendente dalle “cose” da esserne totalmente schiavo. Dimentichi degli insegnamenti minimi del passato (basterebbe anche solo un frainteso habere non haberi), ci ritroviamo a starnazzare nei nostri amatissimi cubicula elettrici, dando per scontato di aver domato la potenza della Natura.

Sappiamo usare i computer, ciò ci autorizza a dichiararci autocrati (non più principi e la differenza è sostanziale) del Creato. Con la conseguenza che, se domani saltassero le infrastrutture che ci tengono in piedi, non sapremmo come sopravvivere. Non conosciamo più la differenza tra un’ape e un calabrone, abbiamo smesso di osservare e onorare la Grande Madre che è la Natura e lei, somma divinità delle Furie che nemmeno il dio del Tuono poté domare, chiederebbe sanguinoso tributo alla nostra ubris.

Paolo Isotta con il fedele cane Ciampa

La nostra modernità, della Natura e degli animali, ha visione folle, che mai nessuna civiltà ebbe. Si amano i cani, i gatti, gli agnelli come fossero bambini intesi questi quali mezzi uomini, perciò bisognosi di cure che appagano l’ego malato di chi gliele strombazza più che fornisce. Si nega, così, ogni rapporto autentico con loro, diventano appendici, contorno di una (presunta) bontà da mostrare nelle piazza piccolo borghese dei buoni sentimenti. Si adorano gli alberi come sterili totem, perché “sono il verde”. E non si conosce più la differenza tra un faggio e una betulla, tra il salice e il larice. Fa degna corona a questi tempi cretini la moda invalsa tra sciocchi emuli (che sacrilegio!) degli antichi coribanti che pretendono far l’amore con una generica “natura”. La loro figura è più ridicola di quella degli eunuchi che acquistarono l’asino Lucio per farne sfogo di lussuria in Apuleio.

Il merito di quest’opera è quello di mostrare che avulso dalla natura, senza gli animali, senza contesto, l’uomo è solo una barzelletta solipsista e triste. E ridicolo diventa quando a loro si approccia dopo averne esorcizzato la sacralità.

Svela, questo libro, lo sforzo dei genii di ogni tempo, di ogni cultura, di ogni popolo nell’affrontare quell’autentica nostalgia che è intrisa intimamente al grande mistero dell’uomo: quello del suo passaggio dall’età della pietra alla civiltà. La prima bestemmia, quella che fece perdere ad Adamo la consolazione dell’Eden, quella che Prometeo regalò agli uomini sottoforma di fiaccola.

E gli antichi, praticamente tutte le civiltà in ogni angolo del globo, (che la sapevano molto più lunga di noi. poveri pazzi saccenti) di quell’era ancestrale sentivano profonda nostalgia. La chiamarono età dell’oro, l’età dell’innocenza. Perché ancora non avevamo fatto inutilmente del male ai nostri fratelli animali.

Solo grandi uomini e immensi genii (da Jack London a Gabriele d’Annunzio, da Ovidio a Leopardi, da Baudelaire a Bulgakov, da Céline a Flaubert) come quelli da Isotta studiati, hanno saputo decifrare l’eco di tale nostalgia profonda, ne hanno vissuto le vestigia, ne hanno goduto e sofferto il richiamo, ne hanno cantato, in poesia, in musica, in letteratura, nell’arte. Hanno dato voce, forma e pensiero all’atavico richiamo, al nodo più irrisolto della nostra memoria fossile.

Per questo, per aver riportato ordine su un tema troppo blaterato, tanto violentato dall’ipocrisia della contemporaneità, c’è solo da ringraziare il maestro Paolo Isotta che merita bene di essere annoverato tra i genii da lui stesso studiati.

“Il Canto degli Animali” di Paolo Isotta. 447 pagine. Marsilio Editori. 22 euro. 

Giovanni Vasso

Giovanni Vasso su Barbadillo.it

Exit mobile version