Cinema. “The Devil’s Candy” di Sean Byrne tra note metal e cultura horror

The Devil’s Candy
The Devil’s Candy

The Devil’s Candy è il secondo lungometraggio di Sean Byrne, presentato in anteprima alla edizione del 2015 del Toronto International Film Festival in una versione leggermente più lunga (90 minuti) di quella   prevista per la sala. Il film narra la storia di Jesse Hellman, un giovane padre, nonché artista tormentato, che senza volerlo si lascia tentare dal male e deve quindi tirare fuori le unghie per combatterlo, così da evitare che la sua famiglia venga inghiottita dalle tenebre. L’uomo insiste per comprare una casa che si rivela essere infestata, esponendo così ciò che ama di più a quella stessa fonte oscura che sta alimentando la sua arte.

Il mito dell’incrocio

La pellicola riprende il mito dell’“incrocio”, nel senso faustiano del termine, che nella musica moderna è solitamente legato alla figura di Robert Johnson (1911 – 1938), del quale si racconta l’aver venduto la propria anima al Diavolo per diventare il miglior chitarrista blues mai esistito. Fu tanta la voglia da parte dello stesso Johnson di alimentare questa leggenda su di lui, che egli compose persino dei brani che strizzavano l’occhio al suo famigerato e presunto patto con Satana: Cross Road Blues (1936) e Me and the Devil Blues (1937). Ecco, per noi sarebbe francamente più gradevole soffermarsi sulla storia “occulta” del blues, invece di parlare di un prodotto totalmente inutile come quello propostoci da Byrne. Ogni estate, pensiamo di “regalarci” l’anteprima di un horror e, puntualmente, ci troviamo a denunciare ciò che andiamo sostenendo da tempo: è un genere per quanto riguarda il cinema, un po’ meno per la Letteratura, morto! La serietà del mestiere ci spinge a dover almeno chiudere la recensione; cercheremo di farlo in modo proficuo, si spera, per il lettore.

In questa ottica, ovvero nel provare a dire qualcosa di utile, possiamo indicare come la caratteristica essenziale di The Devil’s Candy sia nell’utilizzo della colonna sonora per esprimere la possessione satanica. In fin dei conti, è risaputo che da sempre il metal e la “cultura horror” si influenzano vicendevolmente, creando ibridi perlopiù stereotipati e di poca sostanza. Il film in questione inizia col botto, e in generale la diegesi si conferma durante tutto l’arco della storia concitata e senza pause. Ciononostante, malgrado questa sia una opera fracassona, giocata tutta sui rumori e la musica rock, è giusto sottolineare il fatto che la regia è decisamente pulita, sposando con una certa armonia la intenzione di fondere musica e arte, cercando, senza però riuscirci minimamente, di creare un qualcosa di “estetico”.

“Miravo dunque ad ottenere un film che fosse al contempo classico e audace, in grado di conferire ai personaggi un pizzico di spessore, così che la realtà stessa emergesse più concretamente”, beh, caro Byrne, diciamo che di “spessore” nella sua pellicola non vi è traccia alcuna.  Certo, sarebbe disonesto negare che si tratta di un prodotto stilisticamente ricercato per un horror, peccato tale non sia! Sarebbe a dire, che nel buio imperante che connota questa storiella senza capo né coda, si commette un autentico “reato”, giacché quando un film afferente a questo genere non fa paura, anzi, purtroppo in talune parti fa nascere quasi una risata, si impone il dovere di negargli la etichetta di “horror”. The Devil’s Candy è un thriller che non vale il prezzo del biglietto e non certo perché noi si cerchi una autorialità in questo tipo di storie. Tutt’altro, vanno bene pure quelle stupide, ma che almeno facciano sobbalzare sulla poltrona un paio di volte.

Concludendo, in questo filone narrativo che nella Settima Arte ormai stenta – fuorché in alcune fortunate eccezioni che di tanto in tanto si incontrano in sala – sino al limite dello stato comatoso, possiamo solo che recuperare alla mente la genialità della pellicola di Drew Goddard: Quella casa nel bosco (“The Cabin in the Woods”, 2012), che parimenti non spaventa mai. Tuttavia, questo è voluto, non è affatto un caso, visto che tale film andrebbe giudicato quale un “saggio visivo” sul cinema horror, ove si mettono alla berlina i suoi tanti cliché. Saremo pure ripetitivi, ma quello che è riuscito a fare William Friedkin con L’esorcista (“The Exorcist”, 1973) non si è più visto in giro. Cerchiamo di essere sinceri, parliamo di una pellicola che, malgrado siano passati quasi 44 anni, fa paura addirittura vederne la pubblicità in TV. Quindi, chi scrive opere di genere dovrebbe tornare a dotarsi di fondamentali basi, le quali possono essere così sinteticamente illustrate: il fantasy ha bisogno del mito e dell’incanto; la fantascienza deve proporre il fattore tecnologico e una speculazione sulla epoca che racconta… e l’horror? Semplice, deve fare paura!

*Tags | anno: 2015, Nazionalità: USA, Durata: 79′, Genere: thriller/horror, Regia: Sean Byrne, Distribuzione: Koch Media, Uscita: 7 settembre 2017

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Riccardo Rosati

Riccardo Rosati su Barbadillo.it

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