Storia. Il centenario di Caporetto e i caduti “per la Patria immortale”

la-leggenda-del-piave

Un focus storico di Gianni Marocco, già ambasciatore in El Salvador e Paraguay, sul centenario della battaglia di Caporetto

La Battaglia di Caporetto, o dodicesima Battaglia dell’Isonzo, venne combattuta durante la Prima Guerra Mondiale tra l’Esercito italiano e le forze austro-ungariche e tedesche. Lo scontro, che cominciò alle ore 2:00 del 24 ottobre 1917, rappresenta la più grave disfatta nella storia dell’Esercito italiano, tanto che il termine Caporetto divenne sinonimo di sconfitta disastrosa. Con la crisi della Russia dovuta alla Rivoluzione, Vienna e Berlino decisero di trasferire consistenti truppe dal fronte orientale a quelli occidentale ed italiano. Forti di questi rinforzi, gli austro-ungarici, con l’apporto di un’Armata tedesca, sfondarono le linee tenute dalle nostre truppe che, impreparate ad una guerra defensiva e duramente provate dalle precedenti undici Battaglie dell’Isonzo, non ressero all’urto e dovettero ritirarsi fino al fiume Piave, oltre 150 chilometri dal fronte precedente. L’Isonzo è un modesto fiume che scorre in parte nel Goriziano oggi sloveno ed in parte in Friuli-Venezia Giulia. Il Municipio di Caporetto è attualmente  Kobarid, in Slovenia. La Battaglia di Caporetto fa da sfondo al romanzo “Addio alle Armi” (A Farewell to Arms) di Ernest Hemingway, pubblicato nel 1929.

La sconfitta portò alla sostituzione del generale Luigi Cadorna, che aveva imputato l’esito infausto della battaglia alla viltà di alcuni reparti, con il generale Armando Diaz, assistito da Gaetano Giardino e Pietro Badoglio  in qualità di sottocapi di Stato Maggiore. Le unità italiane si riorganizzarono e fermarono le truppe nemiche nella successiva prima Battaglia del Piave, riuscendo a difendere ad oltranza la nuova linea difensiva. L’ultima unità vi si posizionò il 12 novembre, che si considera il termine della Battaglia. Dall’inizio delle operazioni, il 24 ottobre, all’8 novembre i bollettini di guerra tedeschi avevano riferito di un bottino di 250.000 prigionieri e 2.300 cannoni. Circa 30 mila i nostri caduti, un milione o più i profughi civili. Incalcolabili furono i danni materiali subiti.

Non è questa, per esigenze di spazio, la sede per riesumare le varie cause della nostra sconfitta, che giunse inaspettata (e sulla quale molto è stato scritto). All’indomani della rotta, gli Alleati franco-inglesi offrirono forze in appoggio all’Italia, nell’intento di impedire il dilagare degli austro-ungarici verso la pianura padana e verso il fronte sud francese. Infatti, gli austro-tedeschi scendendo in Italia avrebbero potuto colpire la Francia dalla linea delle Alpi, ove da tempo non venivano più mantenute truppe. I contingenti alleati inviati in Italia vennero dapprima schierati in zone sicure, lontano dalle battaglia, e messi agli ordini dei loro Comandi e non del Comando Supremo Italiano. Constatata la tenuta opposta dalle truppe italiane, a fronte dei ripetuti attacchi austriaci, gli inglesi chiesero di entrare in linea sul Montello, mentre i francesi continuarono a tergiversare sino alla fine di novembre ’17, quando finalmente decisero di scendere in campo con una parte delle loro forze. 

Una volta assorbito lo shock conseguente alla ritirata di Caporetto, gli ambienti politici e militari italiani si adoperarono per stabilizzare la situazione. Il generale Alfredo Dallolio, Ministro delle Armi e Munizioni, rimpiazzò le munizioni leggere perse entro il 14 novembre, e per dicembre anche 500 cannoni, ai quali se ne aggiunsero ben 800 forniti dagli Alleati. E venne inviata al fronte la leva del 1899. Le divisioni francesi inviate in aiuto aumentarono a sei e quelle inglesi a cinque entro l’8 dicembre 1917 e, sebbene non entrarono rapidamente in azione, funsero da riserva, permettendo al Regio Esercito di distogliere le proprie truppe da questo compito. Per nostra fortuna i tedeschi, assolto il proprio obiettivo di aiutare gli austriaci, trasferirono metà dei propri cannoni e tre Divisioni al fronte occidentale (Francia) ai primi di dicembre, mentre gli italiani si rafforzavano rapidamente sulle linee del Piave, del Grappa, del Montello.

Tuttavia, i 140.000 ufficiali e soldati francesi ed i 110.000 britannici (più qualche migliaio di statunitensi) pesarono alquanto allorché, terminate le ostilità, i loro Governi ebbero buon gioco a sminuire il nostro apporto alla vittoria finale,  ed a ribadire il cliché, già dei nostri nemici, di un Paese avido, inaffidable, pasticcione, che tradisce per tradizione, con ufficiali ignoranti, poco aggiornati sulle nuove tecniche militari, e soldati per metà  analfabeti,  superstiziosi, facili alla resa (almeno gli austroungarici non ti castravano, come i guerrieri di Menelik ad Adua!). Solo gli ufficiali superiori piemontesi sapevano parlare bene francese. L’inglese era praticamente sconosciuto e questa ignoranza linguistica complicò assai le comunicazioni ed i rapporti tra ufficiali.

Dopo la rotta di Caporetto, e l’arretramento del fronte al Piave, le centinaia di migliaia di soldati italiani fatti prigionieri divennero motivo di vergogna per una parte dell’opinione pubblica, a volte per le stesse famiglie, e d’imbarazzo per i Comandi Militari, cui tornava comoda la definizione di traditori e vigliacchi, loro affibiata per giustificare il disastro. A differenza dei altri prigionieri, gli italiani furono in pratica abbandonati al proprio duro destino (a migliaia morirono d’inedia e denutrizione) dalle Autorità della madrepatria, che imputarono loro l’onta di essersi arresi. Già in agosto, contemporaneamente all’XI battaglia dell’Isonzo, la “Rivolta di Torino” aveva evidenziato un sentimento popolare di crescente esasperazione, influenzato dalla Rivoluzione Russa del  Febbraio 1917 e dalla fine del potere zarista. Con un saldo di varie decine di morti, tra il 21 ed il 26 agosto, la rivolta, che assunse anche un carattere antimilitarista contro la guerra in atto, fu domata ed i dirigenti socialisti moderati ripresero il controllo del movimiento operaio.

All’indomani di Caporetto la classe dirigente divenne più sensibile ai problemi delle masse subalterne, contadine ed operaie.  Fu aumentato il controllo sui profittatori di guerra e si curò assiduamente la propaganda tra le file dell’Esercito. Molta attenzione fu rivolta al morale delle truppe. Il nuovo Comandante Supremo, Armando Diaz, promise, per conto del Governo, di dare “la terra ai contadini”, una delle promesse non mantenute. Ricordate le immani sofferenze e la dimensione del sacrificio, sarebbe falso ed antistorico disconoscere la grande prova di resistenza e di unità che, comunque, al di là di colpe di comandanti militari e carenze di pubblici poteri, l’Italia sconfitta ed umiliata di Caporetto seppe poi dimostrare. Quella dei “Ragazzi del ’99”, esaltata dalla “Leggenda del Piave” di Ermete G. Gaeta (E. A. Mario), che si diffonderà negli ultimi mesi del conflitto, fino a convertirsi nella più celebre canzone patriottica italiana.

Ovviamente, la storia delle guerre vinte non si riscrive, ma grande era stata la stoltezza di entrare nel conflitto nel maggio 1915, funesto il nostro contributo ad abbattere un Impero, l’asburgico, che costituiva un fattore di equilibrio nell’Est dell’Europa,  miope pure la nostra campagna propagandistica denigratoria (ispirata dalle Logge massoniche d’Oltralpe), nei confronti del giovane Imperatore Carlo (fatto Beato dal Papa Giovanni Paolo II) e della di lui volitiva e cattolicissima  moglie italiana, Zita di Borbone-Parma, già poco amati alla Corte di Vienna ed ancor meno a Berlino, allorché cercarono, nel ’17, attraverso i fratelli di Zita, Sisto e Saverio, ufficiali dell’Esercito belga, una lungimirante,  ma scombiccherata pace di compromesso con la Francia di Clemeanceau,  alle  spalle della Germania, buttando sul piatto della “trattativa” Alsazia e Lorena, territori allora tedeschi, l’alleato che, peraltro, proprio l’Austria-Ungheria aveva controvoglia trascinato in guerra nel ’14 (!)

Diversamente dal passato, se era stato facile entrare in un conflitto, quasi impossibile era poi uscirne e questo, probabilmente, non lo avevano previsto neppure il Re, Salandra, Sonnino nel “maggio radioso”, quando trascinarono il Paese nella folle aventura, contro il parere della maggioranza politica. Una “guerra ideologizzata” (anche se per la Duplice Monarchia lo era certamente meno che per altri), che ha richiesto sacrifici immensi alle popolazioni, non può terminare con la sostanziale ricostituzione dello statu quo precedente, come capitava con le vecchie “guerre dinastiche”, ma bensì solo traumaticamente.  Come in effetti fu e si vide ancor più chiaramente nel ’45.  Ciò  detto, non si può negare che grande ed ammirevole  fu la coesione e la forza morale, ancor prima che militare, esibita dal popolo italiano dopo Caporetto e soprattutto nella Seconda Battaglia del Piave, nel giugno 1918, quando  austriaci e tedeschi tentarono, vanamente, l’ultima grande offensiva per vincere il  conflitto sul nostro fronte.

Il grande Esercito Austro-Ungarico ai primi di novembre del 1918 si dissolse: i loro soldati oramai non sentivano più il vincolo con la vetusta Monarchia Asburgica, una motivazione ai loro ideali e sacrifici per seguire a combattere. Lasciarono le trincee insanguinate da tante battaglie: dopo anni di guerra desideravano solo più ritornare al più presto nella loro terra, che per alcuni stava diventando una nuova Patria (Cecoslovacchia, Jugoslavia, Polonia, Ungheria).

Giunsero, quindi, la nostra vittoria di Vittorio Veneto (pensata inizialmente come un’azione dimostrativa, mentre l’Esercito nemico si stava sfaldando, con i reggimenti cechi, polacchi ed ungheresi che abbandonavano la lotta), una battaglia iniziata il 23 ottobre 1918 – un anno dopo la rotta di Caporetto – l’Armistizio di Villa Giusti, sottoscritto il 3 novembre, il “Bollettino della Vittoria” del 4 Novembre, che tutti gli scolari della penisola avrebbero appreso a memoria. Le truppe italiane che entravano a Trento e Trieste festanti; poi  la “Vittoria Mutilata”, le lacrime di Vittorio Emanuele Orlando alla Conferenza di Pace, il “Trattato di Versailles” del 28 giugno 1919; l’Impresa di Fiume di d’Annunzio, il “Biennio Rosso”, il magma caotico del dopoguerra, che accomunava la sorte dell’Italia a quella dei Paesi sconfitti, Germania, Austria, Ungheria.

Vennero allora cancellati dalle mappe il Rossijskaja Imperija, l’enorme dominio degli Imperatori, Zar e Autocrati di tutte le Russie, la Sublime Porta turco-ottomana, la Kaiserliche und Königliche Doppelmonarchie austro-ungarica, il Deutsches Kaiserreich, fondato da Bismarck. E persino, supremo schiaffo all’Italia alleata, il Regno del Montenegro, di Nicola Petrović-Njegoš, padre della nostra Regina Elena, incorporato nell’artificiale Jugoslavia, costituita in funzione anti-italiana. Sul principio dell’ “idealismo wilsoniano”, cioè “autodeterminazione” e  “ogni nazionalità una patria” peraltro disatteso dai vincitori stessi per ragioni geopolitiche e spesso impossibile, dato l’intreccio e compresenza di diverse etnie sorsero vari Stati  deboli, divisi al loro interno da conflitti insanabili, economicamente asfittici, forieri di  ulteriori squilibrii. I nuovi Stati alimentarono deleteri nazionalismi. Come in parte nell’Europa-puzzle  di oggi, voluta dagli strateghi di Washington (il solito divide et impera), ma almeno con la copertura UE, allora assente. Il vecchio nemico austriaco, smembrato, entrò  paradossalmente nella nostra sfera d’influenza, sino al 1938.

In Italia, come altrove, si ebbe l’apoteosi del “Milite Ignoto”, l’Altare della Patria al Vittoriano. Poi la Marcia su Roma, il 28 ottobre 1922 e, quindi, l’avvento del Regime Fascista, guidato dal giornalista interventista, già socialista, Benito Mussolini. Il soldato caduto, ed il fante in particolare, vennero mitizzati nel loro olocausto supremo, dedizione assoluta, con la sua trasfigurazione simbolica, depositaria di valori, virtù, significati, memorie; l’identificazione dei caduti con i martiri “Per la Patria Immortale”.

Sacrificio che ebbe nel Sacrario Militare di  Redipuglia, con i resti di centomila caduti, la sua glorificazione monumentale, ricordatoria, la magnificazione dell’uguaglianza, dell’anonimità e della disciplina militare, oltre la morte. La retorica dell’antiretorica, come qualcuno disse.

@barbadilloit

Gianni Marocco

Gianni Marocco su Barbadillo.it

Exit mobile version