Il caso. Curzio Malaparte tra Bruce Chatwin, Karl Lagerfeld e i fratelli Durrell

Curzio Malaparte
Curzio Malaparte

Tradita dal tempo, si presenta con un rosso stinto, pallido, domato, Villa Malaparte. Timida, si alza dalle rocce di Punta Masullo. Smesso il suo colore, perde esuberanza, svelando a tutti l’età. La sua bellezza formale rimane intatta, nonostante le pareti sbucciate, le finestre prive d’infissi e le impalcature che le fasciano i fianchi. Ma non spicca più come una nave capovolta finita in secca. Decadente, aggredita, guarda il mare incresparsi. La vegetazione, lenta l’avvolge. Cinge. Si allunga, provando un abbraccio. Considerata una delle costruzioni più strane e affascinanti del mondo occidentale, ora è solo un luogo d’artista, silenzioso e mesto. Memoria di ciò che è stato. Una solitaria vetta di culto. Chiusa, da conquistare in clandestinità, da spiare. La lontananza cela il declino. I divieti, la difendono da chi vuol sentire, toccare, entrare in un desiderio, vezzo, esperimento. Lei, come una vecchia signora, prova a starci ancora, ad abbagliare, stupire, suscitare invidia negli sguardi, voglia di averla, pensieri lontani, che appartengono al passato. Ora è realmente “triste, dura, severa”, come la voleva Curzio Malaparte – padrone di casa – : “l’arcitaliano”, “il bel tenebroso da terza pagina”, “un rimescolatore di idee” diceva Eugenio Montale, “un grosso manierista e un fiero bugiardo” a giudizio di Leo Longanesi. Kurt Erich Suckert come si chiamava davvero, prima di imbattersi in un libretto ottocentesco che aveva un capitolo intitolato: “I Malaparte e i Bonaparte”, e cambiare nome. Imprevedibile, sfuggente, avventuriero, sognava di ripetere le gesta di T. H. Lawrence e André Malraux, dimenticando di essere italiano, questione che «ci prende sempre alla sprovvista», come ha sintetizzato Altan. Fu molte cose, troppe. Tutte con passione.  Repubblicano, fascista, antifascista, comunista, cattolico. Militare nella prima guerra mondiale: prima sul fronte austriaco poi a Reims. Durante il fascismo seguì le campagne d’Africa in Etiopia, dopo fu capitano degli alpini nell’invasione italiana della Grecia, e poi partì come inviato sul fronte russo al seguito dell’esercito tedesco. Con gli americani in Italia: ufficiale di collegamento col Comando Supremo delle forze alleate. Scrisse per “Il Mondo”, “Corriere della sera”, “Il Mattino”, e fu direttore de “La Stampa”. Ha lasciato numerosi romanzi –  oltre ai due famosissimi: Kaputt (1944) e La pelle (1949) –  , ha anche scritto e diretto per il teatro, è stato regista del film Il Cristo proibito (1951). Il pamphlet Tecnica del colpo di stato (1931) pubblicato a Parigi, gli costò la direzione de La Stampa e due anni dopo per il capitolo Une femme: Hitler, il confino a Lipari. Qui Malaparte maturò o esplicitò quella che Lawrence Durrell chiamava “isolomania”, condizione d’animo che il narratore inglese conosceva bene, avendo scritto tre romanzi su tre isole greche: Corfù, Rodi e Cipro. Il resto lo fece un suo viaggio a Capri in visita all’amico Axel Munthe, era il 1936. Due anni dopo, complice Galeazzo Ciano, a Punta Masullo – su quel trampolino di roccia piatto  –  cominciavano i lavori della prima villa-biografia, la “Casa come me”. Massima esplicazione della sua tendenza ad estendersi sempre a qualcosa: casa, libri, donne, cane, isola, idee. Disegnata da Adalberto Libera straordinario architetto razionalista, chiamato a dare forma ai desideri dello scrittore.  Sessantacinque anni dopo – anche se porta con sé gli acciacchi del tempo –  la scultura è intatta. Scolorita, in restauro, fiorisce dalle rocce, si distende sul mare. Baciata dalla luce. Si affaccia in punta di piedi come farebbe una ballerina. Sopra, il cielo è grigio con aliti di nuvole nere. Sulla destra, deposti, stanno i faraglioni, aggrediti da un mare color magenta, agitato, rumoroso, gravido di rabbia. Abbiamo attraversato una Capri spettrale, muta, abbandonata, prima di raggiungere la villa. Poca gente in giro. I negozi delle griffe chiusi. Le vetrine espongono bianchi manichini assaliti dal vuoto. Quadri di De Chirico senza colore. Cani allegri e festosi vagano per le stradine dell’isola: «abuliche, senza resistenza» calcando Savinio. Le uniche donne straniere sono delle badanti polacche che si godono la libera uscita domenicale. Anche la funivia è chiusa. Lasciata la piazzetta, bordeggiato il Quisisana, ci inoltriamo fra aranceti carichi che impongono il loro lucente colore sui lati delle case, giardini di cactus, maioliche sbiadite, catenacci suonati dal vento e finestre sbarrate. È strano come un posto così piccolo sia pieno di sconfinati ricordi, è facile imbattersi nella casa che ospitò Marguerite Yourcenar – che qui scrisse Coup de grace – e pensarla in giro, persa in queste strade. Non fu la sola, l’isola ha ammaliato tantissimi scrittori d’ogni parte, che andavano e venivano: Gorkij, Neruda, Wilde, Jacques d’Adelswärd-Fersen, Compton Mackenzie, Gustaw Herling, Alberto Moravia, Elsa Morante e Axel Munthe che era anche medico e ebbe molto successo con la sua autobiografia romanzata:  La Storia di San Michele. Qualcuno si è fermato per sempre come Norman Douglas –  a detta di Raffaele La Capria –  lo scrittore che ha meglio raccontato l’isola. «La reina de roca», come scrisse Neruda. È una regina senza corte, oggi,  l’isola. «Lo sarà fino a primavera» chiarisce Antonio Mazzarella, 77 anni, portati molto bene, che divide la strada con noi. Caprese da generazioni anche se è nato a Lesina, una piccola isola del Mar Adriatico, la famiglia venne via dopo l’avvento del maresciallo Tito, tornando a Capri. Ha lavorato con la Croce Rossa, poi come interprete, dopo amministrando i beni di una ricca americana e infine aprendo una profumeria. «Certo che so chi è Malaparte», lo ricorda per Capri, lo ha anche conosciuto. «Elegante, gentile, un bell’uomo davvero». Tutti ricordano il dandy Malaparte che sposava in pieno lo stile di Capri. I capelli tirati dietro come Valentino, profumo da spargere in giro, lo scuro colore della pelle da valorizzare, e alle spalle l’esperienza del viaggiatore, di chi non ha mancato nessun appuntamento con il suo tempo. Giocava a fare il divo da cinema, uomo di fascino: camaleontico, controverso, volubile, e per questo ancora più seducente, apparteneva al partito di chi sa stare al mondo e sapeva raccontarlo, sapeva rimanere a galla, muoversi in qualunque posto o situazione. Aveva visto da vicino la morte, gli eccidi, e la vera guerra, sapeva benissimo che «una generazione vinta è una cosa molto più seria di una generazione di vincitori», e non lo dimenticò mai. Certo, si innamorava facilmente di donne e idee, incarnando in questo ancora una volta lo spirito di Capri: prendi e lascia, vivi e godi, il resto è oltre, lontano, al di là del mare. Ma alla fine rimase deluso dall’umanità come tutti gli idealisti, prima o poi. Persino Bruce Chatwin si scomodò per lui e per la sua casa, tentando di smontare il mito, salvando la costruzione.  Attraversò la guerra, in Europa seguendo l’armata tedesca e poi in Italia a Napoli con la forza alleata. Sempre in prima persona, scrittore generoso, esteta nelle descrizioni che sfiorano il grottesco ricordando i film di Marco Ferreri, ma anche Dalì e Visconti. Visionario senza mai perdere di vista la realtà. Sentimentale dallo sguardo acuto, e dalle minuziose descrizioni, ha colto l’animo del suo tempo cedendo spesso alla piaggeria, però.

Aveva bisogno di grandi temi, Malaparte, e di grandi eventi: uomini e fatti, per questo dopo la guerra – e dopo averne ampiamente scritto –  nel 1956 volò in Unione Sovietica e poi in Cina dove conobbe Mao. Aveva in programma anche un viaggio statunitense con una impresa in bici, ma non fece in tempo, questa volta fu la vita a prenderlo alla sprovvista e non il contrario. La casa è spoglia, ma le sue meravigliose finestre-mondo – che la aprono al paesaggio caprese: incorniciandolo – lasciano presagire, immaginare cosa poteva essere un pomeriggio in questo salone. Persino il fuoco nel camino sfrigolava e lampeggiava con il mare sullo sfondo. Una casa con gli occhi. Senza balconi o logge, si alza su tre livelli: fila via dritta, spoglia e luminosa, sarebbe piaciuta ad Adolf Loos, e la sua presenza si andrebbe ad aggiungere a quelle controverse e trasversali che l’hanno vissuta: Erwin  Rommel, Giaime Pintor, Palmiro Togliatti, Benedetto Croce. Dall’esterno: salendo le scale a imbuto si vince l’altezza della villa arrivando sul solarium: lì, il bianco frangivento curvo che fa da cresta alla casa, adesso ha due buchi, ma la bellezza della vista mozza il fiato uguale, i mattoni rossi che si sbriciolano sotto le mani, morsi dal sole, aggrediti dalla salsedine, sono gli stessi che calcava Malaparte nelle mattine calde esponendo il suo corpo alla vista delle donne, mentre si produceva in esercizi ginnici o pericolose pedalate in bici sul filo del tetto, equilibrismo che marcava la sua inclinazione di trapezista: corpo e pensieri. È lo stesso luogo che vide una maliziosa Brigitte Bardot scendere in un accappatoio giallo tirata da Michel Piccoli in completo bianco ne Il disprezzo (Le mépris, 1963) di Jean-Luc Godard. Girato qua, e tratto dal romanzo di Moravia, scrittore pubblicato dal padrone di casa alla Stampa e su Prospettive, curiosa coincidenza. Anche Liliana Cavani nella trasposizione cinematografica de La pelle (1981) girerà delle scene qui. Tutti affascinati da questo luogo. Attirati dall’inquieto Malaparte e da questo tetto sul mare che dona vertigine, mette insicurezza, ma anche voglia di vivere e bene, raccontare, starsene per sempre quassù a guardare il mare incresparsi, montare, alzarsi mille e mille volte, infrangersi inutile contro la scogliera, e ripartire, affascinare e stupire, ipnotizzare. E tornare indietro, un unico grande salto, senza tregua, soste, respiri, moto continuo, privo di domande, assalti all’arma bianca, cuore e coraggio, desiderio di muovere, cambiare ogni cosa, e gridarlo. E se non si può fare, se il tempo, gli altri, hanno vinto, allora inventarsi tutto: l’impresa, il viaggio, l’invettiva, di sana pianta, con tanto di colpi di scena e capovolgimenti di fronte, la vita vissuta, il sogno di matarla, gli sguardi persi in giro, le forze sprecate e la voglia di rifarlo: scrivendo. Eccolo Malaparte, la sua casa «quel che più amo al mondo», dice tutto di lui. Mette insieme Bruce Chatwin, Karl Lagerfeld e i fratelli Durrell in un unico grande desiderio.

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Marco Ciriello

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