Difesa. Soldati di pace: la guerra come marketing e il buonismo che umilia le Forze Armate

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“Il frutto della pace è appeso all’albero del silenzio” recita un proverbio arabo. Ma di proverbi ne sanno ben poco coloro che si ostinano a parlare di missioni e di soldati di pace, un marketing psicologico che vende una missione umanitaria in una area di crisi come l’azione di buoni soldati armati, ma solo per difendersi, e pronti e solari con la popolazione.

Pare di rileggere gli appelli della società europea di inizio Novecento alla “mission civilisatrice” dell’Occidente in Africa e in Asia: una campagna militare volta a conquistare ma, nel contempo, a portare il nuovo a civiltà arretrate. Guerre coloniali, insomma, molto diverse dagli interventi militari in Iraq o in Afghanistan, ma celate dalla stessa ipocrisia: è possibile occupare un territorio e tenerlo in nome della “pace”?

Rflessione n. 1 – Cos’è la pace? “Condizione di normalità di rapporti, di assenza di guerre e conflitti, sia all’interno di un popolo, di uno stato, di gruppi organizzati, etnici, sociali, religiosi, ecc., sia all’esterno, con altri popoli, altri stati, altri gruppi” è la prima definizione che dà Treccani; poi, comunemente si allude alla pace come a democrazia, uguaglianza, fratellanza, etc. Ed è su quest’ultima convinzione che fa leva il marketing che ti propone il “soldato di pace”: sorridente, disponibile, che gioca con i bambini e magari anche contrario all’idea di sparare ad un altro uomo.

Riflessione n. 2 – Come si raggiunge la pace? Molto romantica, ma poco realistica l’immagine del “soldato senz’armi” perché, in alcune aree di crisi, se non sei armato e preparato poco puoi combinare. Prendiamo l’Afghanistan: nessuna nazione o gruppo (inglesi, sovietici, talebani, americani) è riuscito ad averne mai pieno controllo, a causa delle lacerazioni sociali, dell’assenza di un’autorità centrale capace di coordinare la tante tribù montane e, cosa ancora più importante, perché in pochi hanno compreso la vera natura di un paese orgoglioso delle sue tradizioni e, nel contempo, non incline ad un celere e radicale cambiamento degli usi e dei costumi. Devo confrontarmi con bande abituate a risolvere le diatribe con pugnali e AK47, l’arte oratoria e la diplomazia hanno fallito, non uso armi: cosa ottengo? Niente. Stabilisco, invece, un perimetro di sicurezza attorno a villaggi obiettivo di razzie: sparo, metto in fuga gli aggressori e assicuro a chi sta dentro il perimetro la mia protezione. Sono un soldato di pace? Se apro il fuoco no di certo, eppure raggiungo ugualmente lo scopo: pacificare un’area, magari molto circoscritta ma finalmente libera dalle incursioni delle forze ostili.

Riflessione n. 3 – Pace è democrazia? Se la mia idea di pace sono le bandiere e gli abbracci gratuiti della Perugia-Assisi posso definirmi sognatore, ma mai un vero conoscitore degli equilibri internazionali. In pratica, la mia obiettività è molto influenzata da considerazioni ideologiche che con la realtà geopolitica hanno poco a che spartire.  Al contrario se penso alla pace come ad un insieme di processi che portano un’area a conquistare dapprima stabilità e, poi, benessere le cose cambiano. In fondo, ce lo insegnano i nostri antenati: pax romana, cioé conquistare un territorio e sottometterne la popolazione al fine di assicurare equilibrio in una zona dell’impero. Inseguito, la costruzione di infrastrutture e la rinascita del tessuto sociale generano prosperità e serenità ma, chiaramente, i tempi sono lunghi. Un concetto che ha caratterizzato la guerra (e la pace) anche nei secoli successivi: vedi la Spagna, con tre anni di conflitto civile, di morti, di sangue, di insicurezza; poi, un intervento di Germania e Italia permette a Franco di rovesciare la situazione, instaurando una dittatura lunga 4 decenni, ma che nel contempo non manca di dare al paese una stabilità durata fino alla morte del Caudillo. Pace, infatti, non vuol dire per forza democrazia.

Riflessione n. 5 – A cosa serve il marketing? Alle missioni di Peacekeeping non partecipiamo per spirito “sportivo”: costano sacrificio, soldi e, soprattutto, morti fra soldati in genere molto giovani. Siamo lì per assicurare stabilità, sicurezza e benessere alla popolazione e per garantire al nostro Paese di continuare a mantenere un peso sulla scena internazionale. I nostri non solo soldati di pace, ma soldati punto e basta e, se necessario, devono rispondere al fuoco per proteggere se stessi, i commilitoni e i locali. Perché la missione principale che le Forze Armate hanno è difendere la Patria e i suoi interessi, non di prestarsi a facili interpretazioni dettate dal buonismo e da una scarsa incisività in politica estera: “Siam pronti alla morte l’Italia chiamò” recita, chiaro, l’Inno Nazionale, intonato ogni mattina all’alzabandiera e, purtroppo, trasformato in una cover commerciale da politici che forse pensano al Risorgimento come ad una nota piazza capitolina… Ipocrisia, ignoranza, superficialità come quando sono stati inviati droni e cacciabombardieri a fotografare l’Isis, pensando che una foto facesse meno male di una bomba; foto che poi finiscono alle intelligence alleate che,  a loro volta, mandano la “cavalleria” a fare a pezzi il nemico.  Cosa cambia rispetto ad una missione convenzionale? Nulla. No, i buoni sentimenti in questo caso non c’entrano: la paura di non essere all’altezza della situazione, la scarsa conoscenza della politica internazionale, solidarietà di facciata e retorica sono gli ingredienti per vendere l’immagine di un’Italia distorta, confusa, per nulla affidabile e che non rende onore all’Italia e alle sue Forze Armate. Soldati di pace, quindi, è solo marketing: chiamiamoli soldati per rispetto alla loro dignità di uomini e donne in uniforme e alla loro professionalità, riconosciuta con orgoglio dagli alleati internazionali, umiliata con il perbenismo in Patria.

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