E dire che la Svezia è stata storicamente considerata un’isola felice, sia dal punto di vista economico-sociale che da quello dell’accoglienza degli stranieri: è il secondo Paese occidentale per numero di rifugiati in rapporto alla popolazione ed ha costituito per decenni uno degli esempi classici di “socialdemocrazia scandinava”, caratterizzata da un generosissimo sistema di welfare. Ancora oggi, nonostante siano state progressivamente ridotte dai governi di centro-destra in carica dal 2006, le tutele sociali sono piuttosto soddisfacenti, anche per gli stranieri, che continuano a fruire gratuitamente di assistenza sanitaria e scolarizzazione.
La crisi economica che ha investito l’Europa negli ultimi anni, tuttavia, ha colpito, sebbene solo di riflesso, anche il Paese scandinavo: il tasso di disoccupazione, pur inferiore alla media continentale, è cresciuto, gravando in particolare sui più giovani e sugli immigrati, tradizionalmente impiegati in lavori scarsamente qualificati. Tutto questo ha evidentemente reso rovente la situazione sociale in alcune aree del Paese, specie nelle periferie “ghetto” delle grandi città, fino all’esplosione di tre notti fa.
La sensazione, però, è che la crisi economica non basti per spiegare gli ultimi avvenimenti. Al di là della facciata, anche la Svezia soffre di gravi problemi d’integrazione delle comunità straniere presenti sul proprio territorio: prova ne sia che nel 2010 il partito anti-immigrati dei Democratici Svedesi è entrato per la prima volta in Parlamento, raccogliendo quasi il 6% dei consensi e incentrando la propria campagna elettorale sul fallimento del modello multiculturale. Si trattava di un primo campanello dall’allarme, che ora trova una preoccupante corrispondenza in queste migliaia di giovani stranieri o di origine straniera, per i quali la guerriglia urbana pare costituire l’unico sbocco per fare giustizia della propria condizione di marginalità economica e sociale. Evidentemente non bastano i sussidi di disoccupazione, per quanto generosi, a supplire alla mancanza del lavoro come strumento di costruzione della propria identità personale; così come non basta un pacchetto di diritti sociali a integrare stranieri sradicati dalle loro culture d’origine in una terra in cui gli stessi autoctoni soffrono l’atomizzazione e che ha rinnegato qualsiasi retaggio della propria storia e della propria civiltà. Questa è, forse, la lezione che possiamo trarre dalla Svezia “sazia e disperata” (oggi un po’ meno sazia di prima, per la verità).