Stesso copione si è ripetuto con Vladimir Putin, con Silvio Berlusconi e – udite, udite – con la Mattel rea di aver creato la Barbie (la cui versione non conforme potete leggerla oggi proprio su Barbadillo). L’accusa di fascismo diventa, per queste, l’innesco con il quale andare letteralmente in scena. Non c’è un programma, una visione, una linea guida in questa protesta: solo istantanee da consegnare ai social e ai giornali. O meglio, forse il senso è proprio questo: l’immagine tout cort, dato che tutto si risolve nel circuito mediatico, una pioggia di “mi piace” e tutto come prima. La loro “società” del resto comprende un utilizzo professionale dei social network, vendita di gadget e di colori per il corpo con tanto di listino prezzi. E, come se non bastasse, è stato dimostrato da una giornalista embedded come le attiviste per le perfomance ricevano un lauto compenso.
Il dissenso 2.0, insomma, ha un retrogusto eminentemente commerciale, liquido sul piano dell’elaborazione dei contenuti e, paradosso dei paradossi, tecnicamente in linea con la mercificazione pubblicitaria del corpo femminile.