La strage pop di Manchester: se reagiamo con i cerchietti ai morti non abbiamo capito nulla

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Diamo già per buona tutta la collaudata sequenza di frasi fatte: viviamo nell’insicurezza, nessun luogo è sicuro, i terroristi non vinceranno, non dobbiamo cambiare il nostro stile di vita, dobbiamo tornare subito alla normalità – e qui, fermiamoci: e se invece dovessimo, eccome, cambiare il nostro stile di vita, dopo questo nuovo attentato?

Il cinismo sta dall’altra parte
In premessa, si dica una volta per tutte che cinismo e strumentalizzazione stanno dalla parte di chi – in fondo in fondo – mette ogni ennesimo attentato insieme agli altri ennesimi attentati; a chi ogni volta reagisce nello stesso modo. La strumentalizzazione è quella di chi, consapevole o meno, cerca una normalizzazione, coprendo istantaneamente quanto accade dietro una marea di frasi fatte, rituali, convenzioni. Strumentalizza l’attentato per dire o fare altro, per distrarre (distrarsi) dall’attentato.

Ogni riflessione seria, in definitiva, è confinata nelle ore seguenti la tragedia, poi messa in naftalina e rispolverata per l’attentato seguente.

La spettacolarizzazione della morte
Anche stavolta qualcuno dirà che colpendo luoghi come teatri, arene, stadi, ristoranti, vogliono colpire il nostro stile di vita. Non è così: colpiscono quei luoghi perché sono molto affollati e poco difesi. Punto. Il loro obiettivo è fare più morti possibili nella maniera più evidente possibile – perché? Perchè l’obiettivo finale è la spettacolarizzazione, l’evidenza. L’avevano capito i Viet Cong, l’hanno capito i seguaci di Bin Laden: le guerre contemporanee si vincono anche, soprattutto, nell’opinione pubblica. E questa – o non l’abbiamo capito? – è una guerra.

I media che rimbalzano le immagini degli attentati, sono complici? No, affatto, o lo sono tanto quanto lo siamo noi, scrivendo e leggendo questo commento adesso. Occorre però distinguere tra informazione e infotainment – sempre più difficile, oggi. Urge chiedere maggiore consapevolezza e rispetto a tutti.

Je suis…Ariana?
A cominciare da chi ogni volta inventa il giochino comunicativo di turno, con le migliori o le peggiori intenzioni. Abbiamo conosciuto i JeSuis e le bandiere a lutto, i gessetti e le candele, ma questa volta per Manchester ci siamo superati. Qualche “creativo”, infatti, è riuscito ad acconciare un logo memoriale per le vittime come una specie di immagine alla Playboy. Il motivo? Il concerto era di Ariana Grande, che si esibisce spesso con delle orecchie da gatto in testa. Il guaio è la diffusione che sta avendo questo logo di nessun gusto.

Sembra triste persino doverlo spiegare, ma la differenza ideale di fondo, la forza assassina che questi folli criminali dimostrano di avere, è nella capacità di morire per qualcosa. Questo non li giustifica, anzi li colpevolizza, ma rende il loro messaggio estremamente potente e virale: qualcosa per cui morire, un senso, ciò che l’uomo cerca dall’alba dei tempi.

Le vittime di Manchester invece rischiano di divenire (doppiamente) vittime di un meccanismo comunicativo questo sì cinico e strumentale, che le rende un gadget commerciabile, addirittura in questo caso nemmeno sotto i colori di una bandiera, di un’idea, ma sotto il logo di una cantante.

Non una lapide, ma la maglietta di un concerto
Ecco, oltre al cattivo gusto allora è questo il messaggio tragico: lasciar intendere che le vittime siano diventate tali perché erano al concerto, che siano morte per quello. Che non siano sepolte sotto croci o lapidi o bandiere, ma all’ombra di un totem pubblicitario, di un personaggio famoso, della copertina di un album. Sui loro capelli non ghirlande di fiori, ma cerchietti con orecchie di gatto. Anche la morte diventa pop. Questo è il discorso di chi pensa sia una questione di stile di vita: da difendere allora non sono più le istituzioni, gli ideali, le identità, ma i bar, le caffetterie, gli stadi.
I luoghi dove va a morire una civiltà che, se esistesse davvero solo lì, sarebbe già morta.

@barbadilloit

Andrea Tremaglia

Andrea Tremaglia su Barbadillo.it

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