Francia. Il suicidio di Venner a Notre-Dame e le belle idee per cui vivere e morire

venner-choc-histoire1Il modo in cui decidiamo di morire riflette il valore della nostra vita. Farla finita sparandosi un colpo d’arma da fuoco dentro a Notre-Dame significa amare il proprio paese fino a volersi fondere con l’ossatura delle sue pietre immortali. Significa riconoscersi nel rango dei Montherlant e dei Drieu. Venner, strenuo oppositore della legge sui matrimoni tra omosessuali recentemente approvata dal parlamento francese, aveva scritto la mattina sul suo blog un lungo post dal titolo «La manifestazione del 26 maggio e Heidegger» che lasciava intendere le sue intenzioni: «Ci sarà bisogno certamente di gesti nuovi, spettacolari e simbolici per risvegliare dalle sonnolenze, scuotere le coscienze anestetizzate e risvegliare la memoria delle nostre origini. Entriamo in un’epoca nella quale le parole devono essere rese autentiche dagli atti». Poche ore dopo, intorno alle 16, è entrato nella cattedrale di Notre-Dame, simbolo di quella civiltà occidentale che lui riteneva minacciata, e si è sparato.

Per il lettore italiano, compreso il lettore “di destra”, compreso persino il lettore “di destra colta”, il nome di Venner non è particolarmente familiare. Chi ha qualche anno in più ricorderà il suo “Il bianco sole dei vinti”, edito da Akropolis, in cui si ricostruiva con piglio revisionista la storia della guerra civile americana. Poi poco più. Eppure la sua bibliografia è sterminata e testimonia di uno straordinario amore per la storia, coltivato però con particolare attenzione al rigore filologico.

La storia della sua vita è la storia della destra francese: figlio di un membro del Parti populaire français di Doriot, si arruola nell’esercito già molto giovane e parte come volontario fra i paracadutisti impegnati nella guerra d’Algeria. L’evento segna la sua vita (non mancheranno al suo curriculum18 mesi di carcere per la sua adesione all’Oas). Differentemente da molti altri reduci, tuttavia, Venner non rimarrà incatenato al ricordo incapacitante dei fatti algerini ma cercherà costantemente di essere un uomo del proprio tempo. Basterebbe leggere il suo testo, scritto in carcere nel 1962, intitolato “Pour une critique positive”: un vero e proprio “Che fare?” di leniniana memoria declinato in salsa nazionalista. A un ambiente che, allora come oggi, fa dell’approssimazione un marchio di fabbrica, Venner cominciava a parlare di strategia, di organizzazione, di chiarezza circa i mezzi e circa i fini. Le sue stilettate all’ambiente dell’estrema destra potrebbero essere ristampate e diffuse oggi senza perdere un grammo del loro valore. “Appena uno recluta dieci liceali – scriveva – si prende per Mussolini”. E ancora: “I ‘nazionali’, che ammirano tanto la disciplina presso gli altri, sono, in pratica, dei veri anarchici”.

Alla sinistra – prima del ’68! – rimproverava di essere conservatrice: “I marxisti non sono più rivoluzionari”, scriveva in Europe-Action nel febbraio del 1966. L’interesse per le scienze della prima Nouvelle Droite deriva tutto dal suo “realismo biologico”, mentre sul tema dell’immigrazione i suoi editoriali furono a dir poco preveggenti. Allo stesso modo, il classico nazionalismo “esagonale” dei francesi uscirà sconvolto dall’irruzione nel proprio panorama culturale del mito dell’Europa-Nazione, di cui Venner (in parallelo, negli stessi anni, con Jean Thiriart) farà una bandiera.

In “Mémoire vive”, l’autobiografia intellettuale di Alain de Benoist, il ruolo di Venner è spiegato con estrema precisione: “Rispetto a una destra essenzialmente reattiva, non interessata che all’urgenza […] Venner sottolineava l’importanza di un lento lavoro di azione risoluta e ostinata, portato avanti da uomini e donne coscienti degli obbiettivi a lungo termine e, soprattutto, ideologicamente strutturati”.

Con la Nouvelle Droite il dialogo sarà perenne, spesso critico, ma sempre elegante. Ancora qualche anno fa, Venner rimproverava a de Benoist l’abbandono del termine “destra”: “Credo che esista, sin dall’Illuminismo, una tipologia mentale di destra e che essa sia definita dal rifiuto della tabula rasa. Ogni pensiero di destra discende dalla sensazione che gli uomini esistano prima di tutto in quanto portatori di un’eredità collettiva specifica. Idea rifiutata dalla sinistra, per la quale ciascun uomo è in sé un inizio, un soggetto autonomo che non deve niente a delle radici, a un’eredità, a una cultura, a una storia. Al massimo gli si riconosce un condizionamento sociale di cui è suo compito liberarsi. Liberazione è la parola-chiave della sinistra, così come eredità (o radici) è la parola-chiave della destra”. Credo ancora che, nella diatriba, avesse ragione de Benoist ma, certo, se la destra fosse davvero questa si potrebbe anche mandar giù la brutta etichetta in nome delle belle idee. Le belle idee per cui si muore, anche nella solitudine di una navata, soli, seppur nel brulichio delle masse turistiche, di fronte alla maestosità della civiltà europea.

 

Adriano Scianca

Adriano Scianca su Barbadillo.it

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