Focus Francia/8. Perché i sovranisti non sfondano nelle metropoli (caso Le Pen a Parigi)

Marine Le Pen acclamata dagli operai Whirpool
Marine Le Pen acclamata dagli operai Whirpool

E’ tutto vero. E’ vero che le capitali europee sono il fulcro della mondializzazione: finanziarizzate, improduttive, senza identità. E’ vero che in esse si accumula questa massa indistinta di capitale apolide, lavoratori iperqualificati, risparmiatori e masse di assistiti. Insomma tutta la sociologia che dal consumismo a debito del modello globalista trae vantaggio. Chiedere alla Le Pen di vincere a Parigi sarebbe stato un controsenso. Chi protegge l’interesse nazionale, lo stato sociale, la produttività, la filiera territoriale dalla devastante speculazione internazionale non può e non deve vincere a casa del nemico.

Tuttavia, quel dato parigino, quello striminzito 5% raccolto dal Front National, indica qualcosa di tangibile: il sovranismo è per certo una categoria giornalistica ed elettorale, ma non è ancora una categoria politica. Questo perché, in Francia come in Italia, le parole d’ordine sul protezionismo e soprattutto sulla questione monetaria suonano all’opinione pubblica che ha ancora un po’ di grasso nella pancia come perifrasi elettorali prive di fondamento tecnico.

Quando al Francese di Parigi, e all’Italiano di Roma, la proposta sovranista racconta di un referendum per uscire dall’Euro, la questione tecnica si impone immediatamente: tassi di interesse, inflazione, debito pubblico. Qui ci si arena, la dialettica non basta a conquistare quella parte di elettorato determinante per andare a governare. Nessuna personalità di spicco dell’area sovranista, infatti, si è mai posto sulla scena politico-economica andando contro, numeri alla mano, alla dinamica di debito monetario su cui poggia, in sintesi, l’intero dibattito politico odierno. Nessuno partito di alternativa, ad oggi, sostiene la propria proposta di indipendenza e sovranità portando piani di risanamento pubblico necessari per staccare la propria comunità nazionale dal giogo del potere finanziario. La dialettica dello “staremo meglio”, “ci riprenderemo la nostra libertà”, non sostiene i sacrifici effettivi che un piano di giustizia economica e sociale dovrebbe prevedere in cambio di quella stessa, auspicabile, libertà.

Referendum, monete a doppia velocità, sospensione dei trattati. Sono palliativi di protesta. Nulla a che vedere con l’autorevolezza di un Governante. A scanso di equivoci, qui nessuno sta pensando, per l’appunto, alle tristi minestre riscaldate di centro-destra o ad alleanze buone soltanto a realizzare tatticismi elettorali. Sosteniamo qualcosa di ben diverso: quando il sovranismo diventa categoria politica si prende anche il carico delle proprie responsabilità tecniche. Mussolini prima di creare l’Italia per intero, in tutte le sue strutture, fu costretto alla famosa Quota 90 nei confronti della Sterlina. La nazione lo seguì in quell’iniziale sacrificio per trarne poi tutti i vantaggi derivanti dall’indipendenza economica e dalla possibilità di un uso qualitativo della leva monetaria.

Il sovranismo deve trovare la sua autorevolezza, uscire dalla dialettica elettorale e parlare in modo tecnico al proprio popolo. Perché ogni giorno perso è un giorno più vicino alla catastrofe di un interno continente.

@barbadilloit

Giacomo Petrella

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