Ritratti. Il centenario di JFK primo presidente videocrate (e glamour)

JFK
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Per il centenario della nascita di JFK pubblichiamo un ritratto di Gianni Marocco, già ambasciatore in El Salvador e Paraguay

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“Era biondo, era bello, era beato: sotto l’arco di un tempio era sepolto”, i versi di Aleardo Aleardi appresi a memoria in I Media, che tutti quelli della mia generazione ricordiamo. Corradino di Svevia, l’orfano sceso dalle natie brume germaniche per riconquistare le solari terre del padre, usurpate da parenti e pontefici, decapitato a Napoli diciottenne, nel 1268, che ha commosso stuoli di fanciulle, uno struggente sentimento, insieme  materno e romantico, d’innamoramento per l’ adolescente eroe sconfitto, aureolato di sfortunato valore.

Quasi settecento anni dopo, il  22  novembre 1963 era assasinato a Dallas, Texas, il più affascinante, ricco, giovane dei potenti del mondo, anzi della maggiore Potenza, gli Stati Uniti d’America, John Fitzgerald Kennedy, che in vita aveva costruito il suo mito (e quello della sua famiglia), che la morte violenta non fece che ingigantire. Lo schermo del televisore di casa, quella sera d’autunno, trasudava e contagiava incredulità, sdegno, angoscia per il futuro collettivo dell’umanità. Pochi eventi della storia han ricevuto più attenzione mediatica, allora e nei decenni seguenti,  per il cinquantenario del misterioso magnicidio, il primo quasi trasmesso in diretta; poi seguito dalla morte del suo presunto uccisore, dai funerali solenni in Washington, lo strazio composto dell’incantevole vedova Jacqueline e dei due figlioletti, il piccolo John-John che saluta militarmente il passaggio della bara del padre sull’affusto di cannone, lentamente in marcia verso il Cimitero Nazionale di Arlington, oltre il Potomac, per esservi tumulato, quale novello Corradino. L’emozione ed il cordoglio furono enormi, senza barriere.

Avevo allora 14 anni e solo quattro mesi prima quello stesso, piccolo schermo in bianco e nero aveva trasmesso le indimenticabili immagini della  visita dei Kennedy a Napoli, il 2 luglio 1963, che si trasformò in uno straordinario  bagno di folla, che sventolava bandierine ed urlava di gioia, soverchiando ogni misura di sicurezza, perdutamente innamorata di un simbolo mondiale che incarnava speranze ed aspettative. Quel Presidente, carico di carisma, sprizzante gioventù e vigore, che tutti volevano avvicinare, toccare come la più santa delle reliquie, che rappresentava, meglio di qualsiasi star di Hollywood, l’American Dream,  la libertà, la “Nuova Frontera”, il fascino irresistibile di slogan che sembravano ideali alti e nuovi, carichi di promesse di benessere, pace, aperture, una vita migliore, più felice per tutti. In quella stessa città, passionale ed eccessiva, che aveva assistito, vari secoli prima, alla tragedia di Corradino. Unforgettable.

Tutto sembra esser stato scritto e riscritto su JFK, la saga di Camelot, l’eleganza sventurata, i fasti e le tragedia della famiglia più nota d’America, l’impasto inarrivabile di glamour, cinismo, mistero, avidità, bellezza e lutti in serie. La commozione del momento, le crude analisi dell’inevitabile dopo, dei conti ancora aperti con la storia. Fascino, guerra, donne, potere di un uomo carismatico che sembrò straordinario ai suoi contemporanei; sfaccettature di una personalità fotografata, ammirata ed incensata ovunque, mille volte. “Kennediano” diventò da allora un aggettivo di uso corrente.

John Fitzgerald Kennedy nacque a Brookline, nel Massachusetts, il 29 maggio 1917, da Joseph P. Kennedy e Rose Fitzgerald, membri di due facoltose famiglie di Boston. Poi è il figlio dell’Ambasciatore di Roosevelt a Londra – il ricco irlandese cattolico, con adeguato pelo sullo stomaco, le amicizie “non sante” del proibizionismo e di Hollywood, le simpatie per la Germania hitleriana, la smodata ambizione e lo spirito ultra competitivo che trasmette ai numerosi figli – quindi lo studente della Harvard University, l’eroe della Guerra nel Pacifico, comandante della motosilurante PT-109, decorato al valore. È senatore democratico del Massachusetts nel 1952:   deve però subire diversi interventi chirurgici alla colonna vertebrale ed usare a lungo le stampelle.  Diventa marito di Jacqueline Bouvier il 12 settembre 1953, appartenente ad una famiglia dell’alta società newyorkese; la più fotogenica First Lady della storia americana, madre di 4 figli, dei quali due sopravvissuti alla prima infanzia. La carriera politica e la popolarità di JFK le devono non poco.

Nel 1960 è il primo (e finora unico) Presidente cattolico degli Stati Uniti, dopo aver sconfitto il suo avversario repubblicano Richard Nixon, prevalendo nel primo dibattito televisivo tra candidati alla Casa Bianca. “E’ stata la televisione più di qualsiasi altra cosa a far ribaltare la situazione”: così Kennedy spiegava la sua vittoria di misura su Nixon. Al contrario, Norman Mailer era convinto che fosse stato il suo articolo pubblicato su Esquire a farlo vincere. Assume la Presidenza e presta giuramento come 35º presidente degli Stati Uniti il 20 gennaio 1961, col tight ed il cilindro protocollari, ma poi cambia stile, diventa il “leader del mondo libero”, tra sorrisi accattivanti, un look nuovo, più informale, le foto dei suoi bambinetti giocando nello “studio ovale”, e chiede alle Nazioni di unirsi nella lotta contro i comuni nemici dell’umanità, la tirannia, la povertà, le malattie, la guerra.

I flop in politica estera

JFK subisce scacchi clamorosi in politica estera, dal Muro di Berlino al consolidamento  del comunismo castrista, dal fallimento dell’operazione della “Baia dei Porci” alla crisi dei missili di Cuba con l’Unione Sovietica (che segnano l’affermazione di Kruschev, che ottiene, in cambio del loro ritiro, l’assicurazione che Washington non attaccherà mai militarmente Castro), dall’escalation della presenza militare in Vietnam all’appoggio al colpo di Stato ed all’assassinio del Presidente Diệm, all’inizio di quello stesso novembre 1963, un errore foriero di lutti infiniti.  Ma è abile a camuffarli, sfrutta il prestigio dei successi nella carriera spaziale ed appoggia il movimento per i diritti civili degli afroamericani; infine lascia la vita come un martire, come Lincoln dopo aver sconfitto i Confederati ed aver dato la libertà agli schiavi.

All’apice della sua carriera politica la stella Kennedy, infatti, cade. Dopo due anni di Presidenza viene ucciso mentre è in visita a Dallas, a bordo della limousine presidenziale aperta. La versione ufficiale dirà, tra molte reticenze, che è stato un solo colpo a freddarlo, esploso, pare, da Lee Harvey Oswald, un ex marine disadattato con moglie russa, con un vecchio fucile italiano, un Carcano Mod. 91, acquistato per posta, per pochi dollari. Freddato, due giorni dopo, nei locali della Polizia di Dallas, da un modesto mafioso ebreo, Jack Ruby, proprietario di un locale di striptease. Il mistero di queste morti continua a tutt’oggi, miniera inesauribile per complottisti, giornalisti, registi cinematografici e storici rigorosi. La verità su quel giorno permane nascosta. Il mandante fu Castro, la CIA, il Ku-Klux-Klan, la mafia, una vendetta trasversale contro il vecchio Kennedy ed i suoi affari sporchi o fu, come in fondo possibile, il gesto di uno psicopatico votato ad un gesto criminale di autoaffermazione?  Così come l’uccisione del fratello Robert nel 1968, già Ministro della Giustizia, anch’egli “sciupafemmine”, candidato per il Partito Democratico dopo Lyndon Johnson, mai veramente chiarita.

L’appetito sessuale di JFK

Marilyn e JFK

Quello che invece venne rivelato all’opinione pubblica, fino all’indigestione, fu  l’insaziabile appetito sessuale di JFK (rapace e frettoloso come il nostro Duce), gli infiniti tradimenti coniugali, tra i quali la tresca con attrice Marilyn Monroe, le frequentazioni equivoche, i legami con divi del cinema ed esponenti mafiosi. La saga continuerà per decenni pure con la bella vedova, Jackie, figlia della ricchezza della madre, Janet Lee, e del prestigio del padre, John Vernon Bouvier III,  cresciuta tra salotti lussuosi e cavalli di razza,  dall’ eleganza innata, i tailleurs color pastello,  imperturbabile nel seguire le proprie idee, il proprio stile di vita, in sofisticato equilibrio tra famiglia e sentimenti. Appassionata di arte, innamorata di libri, ma pure fredda, calcolatrice, rinunciando al ruolo di vedova inconsolabile, al quale voleva relegarla la famiglia del Presidente defunto, per utilizzarla ai fini della sua propaganda politica, fino a convertirsi, nel 1968, nella moglie del maturo magnate greco Aristotele Onassis.

“Quando la Tragedia si sposa al Potere” è stato ripetuto infinite volte – comparandola spesso con la gli Agnelli – circa le vicissitudini e le ricorrenti morti violente di un clan, i Kennedy, che con il dolore ha imparato a convivere e le cui tormentate vicende appaiono come sospese tra immortali tragedie greche ed i serial partoriti dalla fantasia di sceneggiatori televisivi,  Componenti collegati dal sottile filo di una tragedia, quasi fosse inscritta nelle cellule del proprio  codice genetico.

Ha scritto, per il cinquantenario di Dallas, Gian Arturo Ferrari, sul “Corriere della Sera”:

“Il tratto più evidente di Kennedy, il glamour, la sua chiave universale, il magnete della sua persona. L’impalpabile scioltezza con cui si muoveva, la schiena un po’ contratta per la ferita di guerra. L’eleganza spontanea, non studiata, così distante dagli infagottamenti grigiastri degli anni Cinquanta. Le costose semplicità di cui si circondava, prati, vele, moglie e bambini perfetti. La retorica che sembrava antiretorica tanto era efficace, costruita con le parole della Bibbia e di Shakespeare, i ritratti del coraggio e la nuova frontiera. Il governo come gruppo di amici, tutti giovani e brillanti—the best and the brightest —in maniche di camicia e cravatte allentate a guidare la metà buona del mondo. E quella specie di brezza costante intorno a lui, l’aria di cose sempre mosse… Son passati oltre cinquant’anni, ma nessun uomo politico è riuscito a superare o anche solo a eguagliare Kennedy in fatto di fascino. Con lui ogni cosa cambiò, il clima, il tono, l’aura. Una lunga stagione si chiuse e se ne aprì una nuova, che dura tuttora. La cui caratteristica essenziale era ed è l’impetuoso ingresso nella politica delle democrazie di fattori emotivi ed empatici… Kennedy seppe fare della democrazia un sentimento collettivo, la tolse dal suo arrocco in sola difesa e la rese un valore vivibile, un qualcosa cui partecipare, un orizzonte di speranza”.

Guardando ora  le foto di JFK e della sua famiglia, resta il mito della famiglia americana per bene e progressista al potere, l’eleganza e la naturalezza. Erano belli, ricchi, potenti, ma anche giusti, aperti.  Così volevano apparire, sulle copertine di Life e nella realtà.

Straordinario potere dell’immagine.

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Gianni Marocco

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